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Luca Sammartino, i palazzi e l’ombra dell’inchiesta-bis sotto il Vulcano

Di Mario Barresi |

CATANIA – Ebbene sì, s’è avverata la “profezia” di Nello Musumeci, che – al culmine di un titanico scontro all’Ars su un’imboscata col voto segreto su una micragnosa questione di contributi sportivi – sillabò con adeguata sacralità: «Spero che di lei si occupino presto altri palazzi». Ieri, in uno di questi “palazzi” (il tribunale di piazza Verga, a Catania), Luca Sammartino è stato rinviato a giudizio per corruzione elettorale.

«Mi sembra di essere in un film del paradosso», l’autocoscienza orgogliosamente esternata in aula dal deputato regionale di Italia Viva, nelle dichiarazioni spontanee di una precedente udienza. Eppure, al di là della ragionata passione che alimentava la speranza della difesa, il processo che si apre per il feudatario dei voti renziani in Sicilia non è una sorpresa. L’avvocato Carmelo Peluso, in una ponderosa memoria, era riuscito a smontare cinque delle 11 iniziali ipotesi di reato contestate. Ma il peso delle restanti sei, anche dal sobrio ottimismo che trapela dalla Procura, sarebbe tale da dimostrare l’intera “filiera” della corruzione elettorale: dalla promessa di utilità all’impegno militante, fino alla ricompensa dopo il trionfo alle urne.

In un’indagine che parte dal sequestro (nell’inchiesta sui voti sospetti in una casa di riposo dell’hinterland etneo, dalla quale fu archiviato) della “scatola nera” politico-esistenziale di Sammartino: il suo iPhone, con dentro l’enciclopedia della politica regionale. Nell’informativa della Digos, infatti, c’è «un file pdf di circa 74.500 pagine, comprendenti circa 390.000 messaggi di diversa tipologia, parte dei quali consistenti in 4.102 chat Whatsapp». Al netto di «quasi 57.850 immagini e più di 1.200 video» visionati e «quasi 2.000 files audio» ascoltati.

Non a caso la prima battaglia processuale, anticipata già da una richiesta di inammissibilità di Peluso al gup Luigi Barone sarà combattuta proprio sul terreno dell’utilizzabilità delle chat come prove al dibattimento.

Ma non emerge sorpresa nemmeno nei corridoi di Palazzo dei Normanni, habitat naturale di un Sammartino descritto come «molto teso eppure fiducioso» alla vigilia dell’udienza-clou. Nessuna difesa d’ufficio da parte del suo partito, in cui c’è chi giura che ci sia qualche nemico persino gongolante. Stavolta, al contrario di altre precedenti vicende, si rompe il muro del silenzio politically correct riservato a un collega comunque rispettato per lo stile e le capacità mostrate.

«Lasci la presidenza della commissione Cultura, Formazione e Lavoro», lo incalza il M5S, che ritiene il deputato renziano «incompatibile con l’importanza del ruolo che ricopre all’Ars» invocando un «doveroso passo indietro, a tutela dell’immagine dell’istituzione che rappresenta». Altri, fra i corridoi brulicanti alla vigilia della sessione di bilancio, si chiedono cosa farà Musumeci: «Deciderà di non fare costituire la Regione parte civile, così come nel processo a Riccardo Savona?».

Ci saranno dieci mesi di tempo per deciderlo. Un’eternità, anche per “Mr. 33mila preferenze”, lanciato da Matteo Renzi in persona, prima delle ultime stangate dei pm, come potenziale candidato governatore. Ma le porte girevoli fra politica e giustizia, adesso, sembrano annichilire quest’inconfessabile ambizione. Ma la vera zavorra non è che Sammartino dovrà affrontare un processo che entrerà nel vivo nel 2022, l’anno della campagna elettorale delle prossime Regionali. Le nuvole più minacciose sono quelle soffiate dal vento di un’altra inchiesta, sempre per corruzione elettorale, che a Catania fonti qualificate definiscono «in dirittura d’arrivo». È un filone del blitz “Report” sui clan Santapaola e Laudani, in cui la Dda etnea ha arrestato 18 persone, indagandone 37. Fra le quali il politico renziano, la cui posizione però è stata stralciata.

I pm sostengono che le indagini «hanno consentito di accertare, sia pure in maniera indiretta per quel che riguarda i rapporti con noti esponenti del clan Santapaola», la «disponibilità» di Sammartino «a procurarsi voti anche ricorrendo a sostenitori che vantano importanti storie criminali». Una circostanza che, «a prescindere dalla configurabilità in concreto di singole fattispecie penali ex art. 416 ter c.p.» (lo scambio elettorale politico-mafioso, sulla cui contestazione ci sarebbe stato un dibattito in Procura), per l’accusa «desta un particolare allarme sociale per i legami deviati a cui essa dà certamente spazio». Ancor più dura la definizione del Gico della guardia di finanza, che, in una delle 1.286 pagine dell’informativa, sostiene che «è stata individuata un’associazione per delinquere (al limite del condizionamento ambientale mafioso simile a Mafia Capitale) promossa, organizzata e diretta» da Sammartino, che «oltre a provvedere a una raccolta illegale di voti per la sua elezione, entrava personalmente in contatto» con un «noto esponente di Cosa Nostra-clan Laudani».

Twitter: @MarioBarresi

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