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La beatificazione di Rosario Livatino: il 29 ottobre la sua festa

Di Lara Sirignano |

AGRIGENTO – La camicia azzurra sporca di sangue, bucata dai proiettili dei sicari mafiosi è in una teca della cattedrale, un reliquiario in argento che ricorda il suo martirio. Da oggi Rosario Livatino, giudice ragazzino assassinato mentre, solo, senza scorta, la mattina del 21 settembre del 1990 andava in tribunale, è Beato. Martire trucidato da killer stiddari che lo rincorsero mentre tentava di fuggire lungo una scarpata e non ebbero pietà di lui.  «Picciotti, che vi ho fatto?», avrebbe detto ai suoi assassini prima di cadere a terra. Una sorte che aveva accettato da tempo come prezzo da pagare per la vita che aveva scelto.

Un uomo «credibile» lo definisce monsignor Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi venuto da Roma per officiare la cerimonia di beatificazione. Una parola risuonata più volte nel corso dell’omelia pronunciata in una chiesa per l’emergenza Covid aperta a pochissime persone. “Credibile», un aggettivo che, nel pieno dell’ennesima tempesta abbattutasi sulla magistratura italiana, suona come un monito.

«Credibilità fu per lui la coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita. Livatino rivendicò, infatti, l’unità fondamentale della persona; una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. – ricorda il cardinale- Questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come Martire».

Il postulatore diocesano della causa di beatificazione, don Giuseppe Livatino, ne ha «studiato» la vita per sette anni. Una analisi necessaria al processo canonico passata per la lettura degli scritti del magistrato e per l’ascolto di colleghi e familiari. Uno studio di oltre 4mila pagine che ha raccolto anche la testimonianza del killer pentito di Livatino, Gaetano Puzzangaro che ha accettato di parlare nel processo di canonizzazione «perché era doveroso», ha detto.

Magistrato ritenuto inavvicinabile anche per il rigore della sua fede, Livatino istruì il primo maxiprocesso alle cosche agrigentine, poi, scelse di passare al giudicante. Intransigente, riservato, «capì l’importanza del lavoro in pool e l’efficacia delle misure patrimoniali contro i clan», ricorda il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho, tra i magistrati presenti alla cerimonia.

«D’ora in poi sia chiamato beato e, ogni anno, si possa celebrare la sua festa il 29 ottobre», la formula solenne della proclamazione che arriva nel giorno di un anniversario importante. Ventotto anni fa dalla Valle dei Templi, a poca distanza in linea d’aria da quella cattedrale che da oggi ospita le reliquie del magistrato martire, Papa Giovanni Paolo II lanciò il suo storico anatema contro la mafia proprio dopo aver incontrato i genitori di Livatino, il giudice ragazzino «esempio per tutti», dice Piero Grasso, ex capo della Direzione Nazionale Antimafia presente alla cerimonia.

E di esempio a cui ispirare la vita parlano anche i vescovi siciliani in una dura lettera scritta alla vigilia della cerimonia di beatificazione. «Non siamo ancora all’altezza dei nostri martiri. – dicono – In questi trent’anni, tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. La mafia ha trovato altre forme per infiltrarsi. Dobbiamo allora alzare la voce e unire alle parole i fatti. Non con iniziative estemporanee, ma con azioni sistematiche». Segno che anche nella Chiesa c’è ancora tanta strada da fare. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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