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Catania, condannato all’ergastolo il barelliere dell’«ambulanza della morte»: uccise 3 pazienti

Di Redazione |

CATANIA – La prima Corte d’assise di Catania ha condannato all’ergastolo Davide Garofalo, 46 anni, a conclusione del processo di primo grado per omicidio aggravato e estorsione aggravata dal metodo mafioso scaturito dall’inchiesta sulla cosiddetta “ambulanza della morte”. L’imputato, in qualità di barelliere, è accusato di avere ucciso, tra il 2014 e il 2016, tre persone. Le vittime erano pazienti gravi a cui, secondo, l’accusa, avrebbe iniettato aria nelle vene per causarne il decesso. La Procura, con il pm Andrea Bonono, aveva chiesto la condanna dell’imputato a 30 anni di reclusione.

L’inchiesta della Procura di Catania è scaturita da un servizio de “Le Iene”. Nell’ambito dello stesso procedimento è imputato, per un altro decesso, il barelliere Agatino Scalisi, ma il processo, che pure si celebra con il rito abbreviato, non è stato ancora definito.

La tecnica, contesta la Procura di Catania, era quella di iniettare a pazienti terminali un’iniezione d’aria nelle vene, nel tragitto su ambulanze private dall’ospedale a casa, procurando il loro decesso per embolia gassosa e sostenendo che erano morti per cause naturali. Obiettivo guadagnare i 200-300 euro di “regalo” che la famiglia gli avrebbe dato per la “vestizione” della salma. Soldi che sarebbero stati poi divisi con i clan mafiosi di Biancavilla e Adrano.

Sul caso hanno indagato i carabinieri della compagnia di Paternò e del comando provinciale di Catania che hanno contestato a Garofalo tre omicidi, avvenuti tra il 2014 e il 2016.

In Corte d’Assise è stato ascoltato in videoconferenza da una località protetta e nella qualità di testimone di giustizia anche  Luca Arena, che denunciò la vicenda al programma televisivo le “Iene”. Arena ha dichiarato che lui e il fratello Giuseppe comprarono le ambulanze alla fine del 2010 e che inizialmente erano loro stessi a gestirle. È solo nel 2012 che iniziarono gli accordi con le associazioni di tipo mafioso, poiché la quantità di lavoro che erano riusciti a svolgere in poco tempo aveva attirato la loro attenzione.

Tali associazioni (nello specifico i clan di Paternò, Biancavilla e Adrano) imposero la loro gestione alle ambulanze e la presenza di Davide Garofalo e Agatino Scalisi come operatori all’interno delle stesse. Rispondendo alle domande del pm, Andrea Bonomo e dei difensori presenti in aula, Arena ha detto di non aver mai materialmente visto Garofalo o Scalisi all’opera, ma di aver sempre avuto la percezione della loro malafede per l’atteggiamento di poco rispetto che essi assumevano durante il servizio di vestizione dei defunti e dallo stile di vita che conducevano e che non poteva essere giustificato dai pochi guadagni regolari (circa 100 euro a settimana).

Sono state le rivelazioni di Alfio Sangiorgio poi a confermare quella che era prima una sua semplice percezione. Sangiorgio, infatti, più volte sostituì lo Scalisi a bordo delle ambulanze e avrebbe assistito alla macabra morte di Salvatore Gagliano, una delle vittime della vicenda. Fu Sangiorgio a raccontare a Luca Arena di aver visto Davide Garofalo iniettare l’aria nelle vene del paziente e che al suo tentativo di fermarlo abbia risposto «Se non lo faccio questi 200 euro me li dai tu?». Confermato un fine economico quindi, con l’Arena che ha spiegato che il trasporto di un paziente dall’ospedale a casa poteva dare un profitto da 20 a 80 euro. Se invece fosse morto all’interno dell’ambulanza i costi triplicavano, arrivando fino ai 1000 euro nel caso in cui il tragitto fosse particolarmente lungo, oltre al guadagno che si poteva ricavare dal servizio di vestizione della salma.

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