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Paolo Ruffini e quell'amore che dura sin da bambini

Il 6 luglio "Rido perché ti amo"

Simone Russo

29 Giugno 2023, 14:27

CINEMA: RUFFINI, NEL MIO FILM RISPONDO A POLEMICHE DAVID

+++RPT CON TITOLO E DIDASCALIA CORRETTI+++ Il regista Paolo Ruffini sul set del film 'Tutto molto bello', 23 giugno 2014, a Roma. ANSA/ CLAUDIO ONORATI

"Rido perché ti amo", il nuovo film di Paolo Ruffini, uscirà nelle sale italiane giovedì 6 luglio. Un film che vede protagonisti Leopoldo (Nicola Nocella) e Amanda (Barbara Venturato) sono due bambini che si promettono amore eterno. 25 anni dopo quei bambini sono diventati adulti, e si trovano alle prove del matrimonio esattamente come si erano promessi.

«Leopoldo e Amanda – spiega Paolo Ruffini - nascono dall’idea di voler fare un film romantico, divertente, comico, buffo e magico. Un film che abbia voglia di raccontarsi attraverso una domanda: che cosa potrebbe accadere, se noi da adulti, riuscissimo ad amare come amavamo da bambini? Con lo stesso trattamento che facevamo nei confronti di noi stessi, anche rispetto l’amore. Il film inizia con un bambino che a sei anni promette amore eterno e di sposare la propria amata e ad una settimana prima del matrimonio lei lo lascia. Riscontra che è diventato cattivo, antipatico e poco attento. Si era addirittura dimenticato del matrimonio. Lui, per riconquistarla cerca di seguire pedissequamente tutte le promesse che aveva scritto nel quaderno, appunto a sei anni. Ci si chiede se un uomo che ama come un bambino è ridicolo o perdutamente innamorato? È un film che vuole anche raccontare come ci possa essere la speranza di cambiare la propria vita in una favola».

Rido perché ti amo” non è “solo” un film romantico, è un film che fa bene all’anima. Come mai questa scelta?

«E’ un film gentile, ho voluto fare una cosa trasgressiva in questo mondo così cupo. Una carezza, un abbraccio. Il film inizia con un bellissimo aforisma di Antoine de Saint- Exupery che recita “bisogna vedere se il bambino che eri, potrebbe essere orgoglioso dell’adulto che sei diventato”. È una frase che mi piace molto, mi proietto molto nel mio “io bambino”. Quando faccio qualcosa e vedo il mio “io bambino” con il broncio, vuol dire che sto sbagliando qualcosa. Se, invece, mi sorride, mi abbraccia e mi da un bacino vuol dire che sto facendo bene».

Paolo Ruffini che bambino era?

«Pestifero, molto chiuso e felicemente dispettoso. Credo molto nel valore della disobbedienza. Poi sono esploso. Da adolescente ho fatto mille cazzate, che magari rifarei anche adesso ma con più gusto. Con il gusto dell’adulto».

E quel bambino ha reso orgoglioso l’adulto che è diventato?

«Assolutamente sì. Quando il mio “Io bambino” ha visto questo film, mi ha abbracciato forte e mi ha dato un bacino davvero. Forse lo ha diretto lui».

In “Rido perché ti amo” ha scelto di accompagnare alla storia dei due protagonisti anche gli amici che popolano la Piazza, altra protagonista del film: un microcosmo di commercianti e amici nel quale la vita della coppia è scorsa durante tre decenni. Una scelta “diversa” rispetto una trama tradizionale.

«È una cosa vintage. Oggi la nostra piazza è Amazon, ma una volta c’erano veramente le piazze dove c’era la gente. Per fortuna, in alcuni paesini ancora si usa. La piazza con i negozi e con le personalità dei gestori dei negozi. L’idea è quella di continuare a rendere viva la piazza, qualcuno mi ha detto che potrebbe essere un riferimento felliniano. A me piace molto, l’idea di restituire la serenità derivata dal fatto che, molto spesso, la piazza si stringe nei confronti di chi ne ha bisogno».

Quando ha capito che era il momento “giusto” per scrivere questo film?

«E’ arrivato da solo. La genesi di questo film è iniziata cinque anni fa. Max Croci, un regista che, purtroppo, è scomparso troppo prematuramente, ha lasciato la sceneggiatura di un film d’amore con la magia dentro. Si chiamava “amore e voodoo”. Mi avevano chiesto di sviluppare quel film ma non era sulle mie corde. Però ho mantenuto questi due elementi: l’amore e la magia. Ho preso la persona con cui lui l’aveva scritto, Francesca Romana Massaro, ho coinvolto anche Nicola Nocella, che è il protagonista del film, ed insieme abbiamo scritto questo progetto. Partendo dall’idea che il protagonista non volevo essere io, perché non volevo rischiare di banalizzare la storia d’amore».

Il film aderisce al progetto #CinemaRevolution, quanto è importante riportare gli spettatori al cinema. Ci si è disabituati ad andare a vedere un film al cinema?

«La gente si è proprio disabituata all’orizzontale. I ragazzi quando devono fare una foto la fanno in verticale e scrollano su TikTok. Il cinema non si scrolla e si gusta in orizzontale. Mi è capitato di proiettare un film alla presenza di alcuni giovani e stavano a metà sala, non avevano più lo sguardo periferico. Avevano perso completamente il grandangolo a livello visivo. La prima rivoluzione sarebbe cambiare lo sguardo dello spettatore, che ha una soglia dell’attenzione sotto i 15 secondi. È diventato pericolosissimo per la nostra capacità di ascoltare e vedere un film. Bisogna ricorda alla gente che il cinema è un luogo, non è solo un’arte. Mi ricordo che, da giovane, mettevo da parte 30mila lire per comprare una Vhs di Blade Runner, oggi con 10 euro hai una infinità di film. Questo vuol dire che quella cosa non ha più valore. Quando una cosa non la paghi, vuol dire che il prodotto sei te. Le piattaforme usano noi come strumento. Ovviamente non ce l’ho assolutamente con le piattaforme che creano migliaia di posti di lavoro, ben venga. Oggi, però, non c’è più l’attesa e il gusto di fare un po' di fatica per vedere qualcosa. Questo mi dispiace, perché è importante sapere che ci sono delle cose belle ed importanti da vedere in quel posto. Mi faccio un “mazzo” enorme per fare un mix audio, i colori, la fotografia e poi l’utente lo vede nel cellulare. È una mancanza di rispetto nei confronti del lavoro. Bisogna cambiare dei sistemi, per molto tempo in Italia non si è più badati al film ma al Tax Credit. Bisogna alzare la qualità e abbassare i biglietti. Sono d’accordo sul fatto che il mio film non debba costare come Fast and Furios 10. Va benissimo. Il cinema riuscirà a sollevarsi solo riuscendo ad accorgersi di fare meno cose, più belle e che costino meno. È assurdo che in un anno di pandemia, quando i cinema erano chiusi, si siano prodotti 450 film. Un film e mezzo al giorno che nessuno vedrà mai. Film che sono stati fatti solo per profitti economici e bancari. Mi dispiace, è una cosa che ha creato una involuzione al sistema».

Facendo un passo indietro, in tutta Italia ha portato in teatro lo spettacolo “Up & Down” con attori affetti da sindrome di down. Un qualcosa di innovativo che in Italia non era mai stato neanche lontanamente pensato. Cosa le ha lasciato questa esperienza?

«L’ho fatto per me. Tutti pensano che sia un atto filantropico, eroico. In realtà l’ho fatto perché mi annoiavo terribilmente. Noi che abbiamo i cromosomi così detti “normali”, siamo di una noia e di una banalità incredibile. Mi diverto molto di più con le persone down. Tutti mi dicevano di buttarmi sul social, io, invece, mi sono buttato sul sociale. Ho messo una vocale in più e mi ha cambiato la vita. Questi ragazzi mi hanno restituito il senso della lentezza e di certi valori che avevo smarrito. Con quel cromosoma in più, loro hanno una confidenza particolare con la felicità. È stata una esperienza formativa bellissima, penso che abbia tracciato anche un solco nuovo. Prima le persone con sindrome di down erano abbinate ad uno spettacolo di beneficenza. Io non faccio beneficenza, con tutto il rispetto. Questo spettacolo prevedeva che io venissi pagato come loro. Chi lo ha detto che le persone down non siano professionisti?».

Dal teatro al cinema, passando per il web e la televisione. Per Paolo Ruffini dov’è “casa”?

«Sul web non mi sento a casa, preferisco il pubblico ai follower. Mi piace esserci in una sala, che sia in teatro o al cinema. La televisione, oggi, è diventata un elettrodomestico curioso. È cambiata molto anche quella. Mi piace molto il teatro, perché la gente fa fatica ad andarci e di conseguenza spende molto per venirmi a vedere. Mi lusinga molto che mi debba meritare quella fiducia. Mi piace molto cercare di migliorare la qualità del sorriso delle persone».

Probabilmente si è “persa” l’abitudine di sorridere?

«E’ un anomalia ridere, oggi se vai per strada vedi che la normalità è il broncio. Se vedi qualcuno che sorride pensi “ma che cazz* ride”? La risata è una anomalia che non è più richiesta. Quando avevo 16 anni cercavo di diventare famoso facendo ridere le persone, oggi i ragazzi cercano di diventare famosi ammazzando la gente. Sfidando sé stessi e facendo sfide assurde. Si sta perdendo il senso del ridicolo. Ci sentiamo tutti un po' “sto cazz*”. Non riusciamo più a metterci in ridicolo davvero. Ci offendiamo per tutto. Molte volte ci offendiamo per essere noi stessi. Prendersi per il cul* era un modo per volersi bene. Oggi questo politicamente corretto ha devastato la comicità. È un controsenso. La comicità politicamente corretta esiste dai tempi del fascismo. Hitler aveva fatto il tribunale della barzelletta. Aveva fatto uccidere un comico perché, durante uno sketch, aveva chiamato il suo cavallo Adolf. Con i dovuti parametri, ovviamente, oggi non c’è un dittatore ma c’è una dittatura social. Per dirla in tre parole, chi è a favore del politicamente corretto ha rotto i coglion*».

Cosa le fa ridere?

«La volgarità mi fa tanto ridere. Mi mancano tantissimo i cine panettoni. Mi manca la trivialità. Oggi c’è un perbenismo noiosissimo. Oggi né si piange tanto, né si ride tanto. C’è un coperchio sulle emozioni. Non dovute alla classe politica ma ad una quarantina di scappati di casa che su Twitter decidono cosa si può o non si può dire. È un momento cupo per la cultura».