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L'insostenibile leggerezza di MezzoSangue

L'intervista al cantante che ha un legame che forse non tutti sanno con la Sicilia

Simone Russo

03 Agosto 2023, 08:53

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Con due mixtape (Musica Cicatrene Mixtape - 2012, Hurricane Mixtape 2013) e tre album in studio (Soul Of a Supertramp - 2015, Tree - Roots & Crown - 2018, Sete 2022) oggi MezzoSangue è uno dei protagonisti più convincenti della scena musicale italiana. 

La sua penna ha tracciato solchi importanti, senza nessun timore di affidare al pubblico riflessioni esistenziali, che analizzano l’uomo e la società. L’artista romano è pronto ad incontrare il suo pubblico, venerdi 4 agosto, all’Indiegeno a Patti, nel messinese.

«I miei nonni erano siculi – ha spiegato MezzoSangue - il rapporto con la Sicilia è molto stretto. Personale. C’è qualcosa dentro di me della vostra Terra. Ci sono stato molto spesso in Sicilia. Da Siracusa ad Ortigia. Ho assistito a tanti spettacoli teatrali. Sento proprio un legame con la Terra».

Fin da adolescente hai iniziato a prendere lezioni di musica, imparando anche a suonare strumenti come il pianoforte e la chitarra. Quando hai capito che volevi raccontarti in musica?

Da subito. C’era la mia maestra di pianoforte e di canto che raccontava sempre che già a 13 anni dicevo che volevo fare il cantante. All’inizio era un altro genere, poi le strade mi hanno portato a scegliere il rap. È una cosa che sentivo da sempre e che volevo fare da sempre.

Alla tua prima apparizione hai deciso di presentarti con un passamontagna. Mai nessuno ha visto il tuo volto, come mai questa scelta?

Ero in una situazione non comoda a livello personale e familiare. Vivevo in una situazione difficile. Ricordo che vedevo questo contest in cui tutti i testi erano autocelebrativi, in cui c’era solo un discorso personale. Visto nella situazione in cui stavo ho voluto far capire alle persone che non cercavo un ritorno personale ma volevo dire un qualcosa che potessero condividere tutti. Ho preso la maschera più comune e facile da trovare, per tutti. Ho voluto far capire che sotto la maschera non c’era un nome o una identità ma un’idea che parla.

Quando hai capito che stava “nascendo” MezzoSangue?

In questa occasione, c’è stata una spinta particolare. Si sono allineate le cose. In quella situazione particolare mi era stato affidato il nome. All’inizio non volevo mettere né nome e né faccia. Successivamente un mio amico se ne uscì con la frase che ero come i cavalli mezzosangue. Cioè coloro che sono più forti ma meno valorizzati dalle persone. Un riferimento anche alla famiglia che avevo. Da lì è nato il nome, perché la gente chiedeva altra musica. Ed è nato il progetto.

I tuoi testi sono ricchi di citazioni letterarie, cinematografiche e scritture varie che trattano di questioni etico / filosofiche / esoteriche. Quando capisci che è il momento di scrivere un brano?

Molto spesso succede quando ho degli stimoli esterni. Quando cerco di esprimere una sensazione che vivo. Quando sento una spinta o un modo in cui ragiono, butto giù delle idee. Sento la necessità di raccontarlo.

Recentemente hai presentato “Sete” un concept album che analizza 10 forme di sete nel concetto baumaniano del termine di liquidità. Cos’è la tua sete?

La sete è una sensazione interiore che in realtà si basa su un bisogno. La differenza tra la sete e la fame è che la sete è molto più passiva. È una cosa quasi che si subisce. La fame, invece, ci spinge ad agire e fare qualcosa. La sete è una sensazione che si subisce ed è un discorso portato sul sociale e sul contemporaneo. Diventa una sensazione sociale che persiste e non si può saziare. Una cosa rimane insaziata perché c’è una quantità di proposte. Un mondo inflazionato in tutto. Nonostante questa quantità di proposte e di situazioni, comunque è una situazione che persiste. Manca qualcosa.

In questa sete c’è anche la fede. Come mai?

Rappresenta il fatto che quel tipo di sete non si può saziare esternamente, solo internamente. Quell’approccio materiale alle cose non può saziare quella forma di sete. La fede, per me, rappresenta il fatto di credere veramente in qualcosa. Credere in una intelligenza superiore a noi. Superiore alla nostra comprensione delle cose. Specialmente in questi momenti, in questi contesti storici è l’unica cosa che può dare vita e forma ad un cambiamento. Un qualcosa di più reale.

Un album che incontra l’amore, la morte ed anche la paura. Tra di loro c’è un legame?

Sono molto legati. La morte è intesa come lutto, come una mancanza. Distacco dall’attaccamento. In quel caso sono sempre l’amore o la paura che giocano la partita del distacco. Aiutano l’evoluzione del distacco. Tutto è sempre relativo ad un compito umano, quello di non attaccarsi alle cose, ai sentimenti e alle persone.

Hai scelto di raccontarti senza badare alle mode del momento e con un linguaggio impegnato, quanto è difficile?

Purtroppo, per me, è fondamentale. Non riesco a livello artistico a fare altrimenti. Ho bisogno di raccontarmi e di essere nella musica stessa. Altrimenti finisci per diventare parte di quella liquidità che non sazia nulla. Non dice nulla, davvero. Raccontare il percorso personale, umano e sociale e collegare tutta l’evoluzione che apprendo è fondamentale.

L’album si chiude con il brano “Diofisimo”. Un tema molto attuale e importante. Come mai questa scelta?

Diofisismo è una dottrina secondo la quale ognuno di noi è Dio. Realmente. In tutta questa ottica moderna che è di preparazione a quello che verrà dopo, noi siamo co-creatori della realtà. Diofisismo è rendersi conto di tutto quel potenziale che è dentro di noi. È un passo successivo alla fede. È un qualcosa che può credere, è un qualcosa che anche a livello scientifico andremo a spiegare. È un riconoscersi in qualcosa che verrà. Siamo parte di un qualcosa di più grande, rispetto a quello che ci rappresentiamo adesso.