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Dacia Maraini, una bambina diventata donna che ricorda gli orrori della guerra e rinasce in Sicilia

La scrittrice in “Vita Mia” ripercorre le pagine del suo passato tra le pieghe di un dramma comune ai sopravvissuti

Francesco Mannoni

08 Ottobre 2023, 13:01

Dacia Maraini

Dacia Maraini

Il ricordo degli orrori della seconda guerra mondiale, la sua condizione di bambina prigioniera in un campo giapponese, il militarismo rigoroso- sadico si potrebbe dire - dei nipponici, il suo cuore gonfio di pena «come una melanzana»; le bombe che scoppiavano nei pressi del campo, le atomiche di Nagasaki e Hiroshima, l’aver capito per tempo le intenzioni di un pedofilo, il ritorno e la vita che riprende in Sicilia, a Bagheria, il collegio a 13 anni: Dacia Maraini rivive oggi ogni passata emozione come qualcosa di immane, una tragedia macabra, una delle tante che la vita allestisce ogni giorno e in «Vita Mia» (Rizzoli, 224 pagine, 18 €) riporta le «Memorie di una bambina italiana in un campo di concentramento», dove ha conosciuto le peggiori umiliazioni e le più indicibili privazioni.

I ricordi dolorosi

«Per me sono ricordi dolorosi che hanno segnato la mia vita» dice la scrittrice che considera «un grande atto di coraggio, un esempio di onestà a cui tento di mantenermi fedele» la scelta fatta dal padre Fosco, antropologo e orientalista, e dalla madre Topazia Alliata di Salaparuta, antifascisti convinti che si trovavano in Giappone per lavoro, e non accettarono dopo l’armistizio del 1943 di aderire alla Repubblica di Salò, pur se ciò costringeva anche le loro tre bambine di pochi anni (Yuki e Toni nate in Giappone e Dacia, la maggiore, in Italia) a una vita di disagi e di stenti: fame, paura, miseria, malattie.

«Mi sono sempre proposta di raccontare i dolori del campo ma rimandavo sempre per le afflizioni che dovevo riprovare - commenta con grande serenità la scrittrice che tra romanzi, raccolte di racconti e di poesie, opere teatrali e libri per bambini ha scritto oltre un centinaio di libri -. Alla fine mi sono decisa. Forse il bisogno è stato aumentato dai venti di guerra che sento arrivare e che mi spingono a ravvivare la memoria del campo. Nel ’43 la famiglia Maraini era diventata per i giapponesi un pericoloso corpo di miscredenti da condannare e punire. Anche le bambine: figlie di traditori non potevamo che essere trattate come traditrici. Sapevamo di dover partire, ma non per dove. E neppure quando fummo sequestrati in casa fino alla partenza. Le comunicazioni erano proibite, non potevamo avvertire i parenti italiani che stavamo per essere chiusi in un campo di concentramento».

Da Kioto a Nagoya nel campo di Tempaku: da quello che racconta, compreso mangiare le formiche e i serpenti, le vostre sofferenze devono essere state davvero inumane. Ha perdonato i giapponesi visto che racconta senza acredine né alcun tipo di razzismo?
Per fortuna ho imparato presto nel campo che la popolazione giapponese era contraria alla guerra e solidarizzava con noi. Io che ero piccola qualche volta mi infilavo fra i fili spinati e andavo dai contadini a raccogliere le rape oppure a curare i bachi da seta e poi loro mi regalavano una rapa o un uovo che io portavo di nascosto dentro il campo. I contadini avrebbero dovuto denunciarmi ai guardiani del campo ma non l’hanno mai fatto. E sentivo che parlavano fra loro contro la guerra e contro i militari. Questo mi ha fatto capire fin da piccola che le guerre non le decidono i popoli ma i potenti e che i giapponesi erano ben altra cosa dai guardiani sadici che ci controllavano.

Una bambina supera meglio le tragedie di una guerra o nel tempo diventano incubi senza fine?
All’epoca della prigionia avevo sette anni e ogni sera mi stupivo di essere ancora viva. La sopravvivenza in questi casi diventa una strategia fondamentale. Ho imparato a sopportare, ad avere pazienza e ardimento… però ancora oggi di notte mi capita di sentire gli aerei che volano e le bombe che scoppiano.
Suo padre Fosco in un momento drammatico della prigionia, accusato di vigliaccheria dai soldati giapponesi, si mozzò un dito della mano con un coltello guadagnando enorme rispetto agli occhi dei vostri aguzzini: un gesto che vi salvò la vita. Come interpreta oggi quell’atto di grande coraggio?
Penso che l’antropologia a volte aiuta a sopravvivere. Mio padre conosceva bene la cultura antica dei samurai e sapeva che lo yubikiri, il taglio del dito, faceva parte di un rituale per cui si creava una obbligazione al nemico. Infatti il poliziotto su cui mio padre ha gettato il dito mozzato ha subito cambiato il tono di voce nei nostri riguardi e dopo una settimana ci ha portato una capretta che ci dava del latte fondamentale per la proteina che conteneva.

Suo padre ipotizzava e preveniva tutto, capiva, percepiva ogni risvolto nell’ambito del campo: merito d’una grande cultura e d’una grande umanità?
Fosco era un uomo di cultura e poi aveva avuto una madre inglese di straordinario coraggio e intelligenza, una donna che ai primi del ‘900, con pochi soldi, partiva per fare il giro del mondo da sola. Mio padre aveva ereditato da lei l’amore per i viaggi e una curiosità infinita per gli altri popoli e le altre culture.