Veronica Tomassini torna in libreria con “Sangue di cane”, un “caso letterario” riedito dopo 14 anni
Risalta la “scrittura lancinante, la sua, che alterna singolari capacità descrittive a momenti di alto lirismo propulso da un lessico prezioso”
«Vedi Sławek? Tutto filava, eravamo al principio, senza sapere che sarebbe stata la fine». Un passo emblematico da “Sangue di cane”, il primo romanzo (un “caso letterario”) di Veronica Tomassini, edito, nel 2010, da “Laurana” (su “utili consigli” di Giulio Mozzi), oggi pubblicato da “La Nave di Teseo”. Una storia d’amore sillabata dal “destino”, dal «Padre che non costringe troppo nelle tenebre, che promette nuove albe e ferma il braccio dell’empio», impossibile, nondimeno “presente”, benedicente come l’amore, “il miracolo”, dentro un tempo finito.
-Può dirci, oltre il pensabile, in un momento cruciale della sua esistenza, quale significato ha per lei questa riedizione?
«Era importante che la mia scrittura tornasse a casa. Cioè tornasse nei luoghi che l’hanno nutrita, rivelata, senza dei quali null’altro avrei potuto indagare. Attraverso la lente di quegli anni, ho attraversato un sentiero, la cima era sempre la medesima, meno timida stavolta, la verità. Il romanzo doveva tornare nel luogo destinato persino nella forma, nel contenitore più esatto voglio dire, la collana “i Delfini” de “La nave di Teseo”, che raccoglie le opere degli autori maggiori».
-Facciamo un passo indietro, dall'amore per la lettura, alimentato dalla florida libreria di suo padre, all'amore per la scrittura, la sua scrittura con la quale sembra combaciare perfettamente, all'adesso per chiedere: tra l'impossibile e l'abisso cosa può (cosa ha potuto) la scrittura?
«La scrittura non redime, non salva, non saprei quale strumento o funzione possa oggi assumere per me, in un momento difficilissimo che attiene alla mia vita privata. Ma in generale, credo che abbia sempre interloquito segretamente, una specie di preghiera insita nel sussulto, nel sospiro, un qualcosa di tacito, che poi radunava le parole e raccontava, spesso le parole affiorano da sole, come se non fossero le mie, non mi appartenessero. Ed è vero, si colloca a metà tra l’impossibile e l’abisso, con uno sguardo tuttavia che procede sempre più e meglio in verticale».
-Coerentemente, i suoi protagonisti, da Sławek in poi, dicono l'esistenza dai margini del mondo e, per il tramite della sua voce, fanno luce (anche) sul significato della parola “misericordia”, sostanza senza la quale l'esistenza si sgretola. Cosa vorrebbe non sfuggisse ai suoi lettori?
«Forse che in noi c’è un bisogno ineffabile, che non è mai esaudito, dove dimora una mancanza perenne, o la sete, la necessità di raggiungere ciò da cui siamo stati separati quando eravamo altrove, nei nembi celesti. Ai lettori posso augurare la fede. La fede però si raffina nel dolore. E non sempre siamo bravi a riscaldarci alla sua fiamma».
-Scrittura lancinante, la sua, che alterna singolari capacità descrittive a momenti di alto lirismo propulso da un lessico prezioso. I suoi testi sono scrigni ai quali attingere parole salvate dall'oblio. Qual è l'odore della (sua) libertà quando scrive?
«Il profumo della memoria, un tempo potevano essere i fiori d’arancio, il gelsomino. Oggi la libertà è l’insetto che sbatte le ali contro il vetro di una finestra. La libertà, oggi in special modo, vuole affrancarsi dalla scrittura. La scrittura diventa memoria, e la memoria ha strali terribili quando contiene il lutto». -“L’amore guarisce e salva pure nel fango”?
«L’amore guarisce e salva, ma sulle modalità non è dato sapere. Può salvare in un congedo improvviso, e pensi: non era questa la salvezza che volevo. Ma il nostro dovrebbe essere sempre un fiat. Qualunque cosa accada: sia fatta la Tua volontà».