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Love & Sex, oltre il cliché: come gli artisti contemporanei ridisegnano la sensualità

Pittura “epidermica”, scatti che diventano diari, nuovi sguardi queer: guida ragionata a chi oggi mette il corpo al centro, tra desiderio, intimità e politica dell’immagine.

Redazione La Sicilia

24 Dicembre 2025, 13:23

Love & Sex, oltre il cliché: come gli artisti contemporanei ridisegnano la sensualità

Una stanza immersa nel verde acido: quattro ragazzi ballano stretti, un quinto li osserva sul divano, i telefoni brillano come lucciole. Sembra una serata qualunque, ma su quella tavolozza c’è molto di più: comunità, paura, appartenenza, attrazione. È una scena dipinta da Salman Toor, pittore pakistano-americano che ha trasformato la vita domestica queer in teatro della pittura contemporanea. E mentre la pittura torna a farsi “epidermica” – un contatto ravvicinato con la pelle e con l’emozione – altri artisti, dalla fotografia al neon, smontano e ricompongono lo stesso tema: la sessualità come esperienza privata e insieme linguaggio pubblico. Non è un ritorno del nudo, è un nuovo modo di guardare.

Un canone in movimento: dal realismo di Courbet al presente “senza filtri”

Che l’arte abbia sempre sondato eros e intimità lo ricordano le pieghe ambrate dell’olio in L’Origine du monde (1866) di Gustave Courbet, manifesto della franchezza realista e della potenza dello sguardo quando smaschera convenzioni e allegorie. La tela – com’è noto – scandalizzò e affascinò, passando da collezioni private al Musée d’Orsay dove oggi è presentata “senza alcun cache”, riannodando il legame con la grande tradizione veneziana del colore e con l’idea di una pittura “carnale e lirica”. Un’opera che continua a interrogare lo sguardo, il pudore, la rappresentazione.

Ma è nel presente che il tema esplode in una pluralità di approcci: pittura come mezzo privilegiato per toccare la superficie della pelle e la sua carica emotiva; fotografia come diario intimo e politica dell’immagine; pratiche femministe e queer che riscrivono la grammatica del desiderio e del consenso. Un panorama sfaccettato, che l’articolo di Icon Magazine ha messo a fuoco con una selezione di artisti – dalla trasparenza brutale di Betty Tompkins alla teatralità coloristica di Lisa Yuskavage – e che qui approfondiamo e allarghiamo per fornire contesto, verifiche e riferimenti utili.

Pittura: la pelle come superficie sensibile

John Currin, bellezza e grottesco in equilibrio instabile

Nel lavoro di John Currin la pittura classica si accoppia con pin-up, pornografia e citazioni da Old Masters: donne manieriste, allungate, spesso parodiche, in cui bellezza e grottesco cercano un punto di equilibrio. Negli anni 2000 l’artista ha spinto il registro esplicito, poi lo ha reso più allusivo, lasciando che il sesso scivolasse sullo sfondo, come un quadro nel quadro. Un’operazione concettuale (oltre che tecnica) sullo sguardo e sul desiderio, che interroga la costruzione culturale del “nudo”.

Tracey Emin, la confessione come gesto pittorico

Dalla struttura-poema al neon ai letti disfatti, Tracey Emin ha reso la propria biografia un alfabeto visivo. Negli ultimi anni, la pittura è diventata il centro della sua pratica: corpi rapidi, scorticati, dove lo stato emotivo precede la forma. L’atto pittorico coincide con l’atto di confessione: tra traumi, desiderio, perdita, Emin usa la figurazione per fissare il momento in cui l’intimità si fa immagine. (Si veda anche la genealogia dell’opera My Bed, 1998, che ha ribaltato l’idea di soggetto e scena nell’arte britannica contemporanea.)

Salman Toor, la tenerezza come politica dello sguardo

Con How Will I Know (2020–2021) al Whitney Museum, Salman Toor ha consacrato una pittura a formato medio che racconta la vita di giovani uomini queer tra New York e il Subcontinente: interni, oggetti, luci notturne e quel verde-notte che è diventato cifra. Le sue tele alternano comfort domestico e ansia sociale: code in aeroporto, cene di famiglia cariche di non detti, balli liberatori in appartamenti-miniatura. È pittura del vissuto, ma filtrata da un robusto lessico storico (da Fragonard ai Preraffaelliti), che costruisce una sensualità a bassa voce, intima e politica.

Betty Tompkins, una grammatica della censura

Dalla fine dei ’60 Betty Tompkins dipinge immagini esplicite di atti sessuali, isolate e ingigantite fino a diventare campi astratti di grigi e carne. Le sue Fuck Paintings – sequestrate alla dogana francese nei ’70 e ancora nel 2006 finite in “art jail” in Giappone – hanno messo a nudo la persistenza della censura come dispositivo di controllo del corpo femminile. L’acquisizione di Fuck Painting #1 da parte del Centre Pompidou ha segnato un (parziale) risarcimento istituzionale, ma la resistenza attorno a queste immagini resta un dato della discussione pubblica.

Jenna Gribbon, vedere ed essere visti

Nelle tele di Jenna Gribbon – spesso con la compagna, la musicista Mackenzie Scott (TORRES), come musa – la pittura assume il ritmo dell’intimità domestica: dettagli di mani, gesti minimi, desiderio che si sedimenta come velatura. La sua è una ricerca sullo sguardo: coinvolge e smaschera allo stesso tempo chi guarda, rendendolo consapevole della propria posizione. L’erotismo è dichiarato e insieme contraddetto, portato su grandi formati come atto di visibilità lesbica.

Louis Fratino, il quotidiano queer come scena classica

Nato nel 1993, Louis Fratino mette in quadro la domesticità e il corpo maschile con una tavolozza sensuale, memore di Matisse, Picasso e Bonnard: abbracci sul divano, bagni d’estate, nature morte che odorano di mattino. La sua pittura, diaristica e tattile, ha trovato nel 2025 un importante riconoscimento istituzionale con la personale Satura al Centro Pecci e la presenza alla 60. Biennale di Venezia: prova che il racconto queer del quotidiano è ormai parte del discorso museale, non un’appendice.

Lisa Yuskavage, il colore come libido

Le figure femminili di Lisa Yuskavage – volumetriche, teatrali, spesso spiazzanti – sono laboratori di colore e psico-sessualità: i “rosa radioattivi”, i verdi lattiginosi, le ambientazioni ambigue che fondono pittura alta e cultura pop. La domanda resta sospesa: critica del soft porn o appropriazione? Forse entrambe, perché è la pittura a pretendere il centro, con una grammatica cromatica che investe lo spettatore prima del soggetto.

Fotografia: il diario, la comunità, la militanza

Catherine Opie, regalità queer

Tra 1993 e 1996, Catherine Opie ritrae amici e compagni della scena leather e S/M su fondali holbeiniani: composizioni frontali, pose regali, una luce che nobilita e mai esotizza. In Self-Portrait/Pervert (1994) incide sul petto la parola “Pervert”, con 46 aghi a perforare le braccia: un gesto di autoritratto politico e vulnerabilità che ha fatto storia, presentato anche al Whitney nel 1995. Il suo “Trash” (1994) – icona della comunità, spesso confusa dal pubblico generalista – mostra come la messa in scena possa essere strumento di autodeterminazione.

Nan Goldin, la dipendenza come ballata

“The Ballad of Sexual Dependency” di Nan Goldin700 diapositive orchestrate su colonna sonora – è il diario “che lascio leggere agli altri”, un’opera che ha ridefinito il confine tra vita e immagine. Amori, violenza domestica, AIDS, droga, gioie e lutti: un’opera che nasce come proiezione dal vivo e diventa libro nel 1986, mostre, archivio, memoria collettiva. È un classico che continua a interrogare come traduciamo la sessualità in storia.

Zanele Muholi, “visual activism”

Con le serie Faces and Phases e soprattutto Somnyama Ngonyama (“Salve, Leone scuro”, avviata nel 2014), Zanele Muholi ribalta l’immaginario: autoritratti ad alto contrasto, oggetti quotidiani come diademi o corazze, una teatralità che dialoga con storia coloniale, lavoro domestico, identità di genere. La grande retrospettiva alla Tate Modern ha sottolineato come qui la sensualità sia inseparabile da una politica del corpo e della rappresentazione. Neri profondi e bianchi accecanti trasformano la pelle in linguaggio.

Altri sguardi necessari: Saville e Dumas, pittura come corpo a corpo

Jenny Saville, carne e pittura

Nelle tele monumentali di Jenny Saville la carne è soggetto e materia: impasti d’olio, corpi che debordano dalla cornice, autoritratto come paesaggio. Dalla serie Closed Contact (con Glen Luchford) alla recente retrospettiva londinese del 2025, la pittura di Saville insiste su una sensualità non addomesticata, materica, che rende la pennellata veicolo d’eros e dolore. Non “nudi”, ma corpi: il medium stesso come pelle.

Marlene Dumas, ambiguità e desiderio

Tra eros e ambivalenza, Marlene Dumas dipinge figure che nascono da archivi fotografici e immagini mediatiche, scivolando tra tenerezza e perturbante. La sua pittura, spesso liquida, mette in crisi i codici del guardare e capovolge i cliché dell’erotico: la sensualità può stare in un volto di morta, in un gesto appena accennato, in un blu che è brivido. Il recente ingresso al Louvre (2025) e la storia espositiva alla Tate confermano come la sua indagine – anche sul rapporto tra sessualità e potere – sia cruciale per leggere il presente.

Pittura vs fotografia? Falso duello. Conta chi prende in carico lo sguardo

Dire che “oggi la pittura è il mezzo privilegiato della sensualità” è vero a metà. È vero quando la pittura torna corporea, densa, tattile: Saville, Toor, Yuskavage, Fratino mostrano come il colore possa tradurre tatto, calore, imbarazzo. Ma è altrettanto vero che la fotografia – da Goldin a Opie, fino a Muholi – ha reso visibile una pluralità di corpi, desideri, comunità che la pittura da sola non avrebbe potuto istituzionalizzare in modo così rapido. L’asse, semmai, è etico: chi controlla lo sguardo? Chi determina il consenso? Chi gestisce la cornice – letterale e simbolica – dell’immagine? Qui si gioca la qualità del lavoro, oltre le scelte di medium.

Perché (ri)parlare oggi di sesso, nudo, intimità?

Perché il corpo è tornato a essere campo di battaglia: tra censure che persistono (dai sequestri degli anni ’70 alle rimozioni sui social), e nuove visibilità che chiedono legittimazione istituzionale.

Perché la rappresentazione del piacere e del dolore non è mai neutra: implica autorità, storia, stereotipi da smontare. Gli interventi attivisti che toccano opere storiche (si pensi ai recenti gesti su Courbet) indicano una domanda di rilettura del canone, nel bene e nel male.

Perché l’arte offre lessici per nominare ciò che manca nel discorso pubblico: tenerezza, consenso, ambiguità, vergogna, orgoglio.

Se un filo unisce gli artisti qui citati è la volontà di prendere in carico non soltanto l’immagine del sesso, ma il suo contesto: relazioni, potere, vulnerabilità. E di farlo con strumenti che cambiano la nostra percezione prima ancora delle nostre idee.