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Il contadino che ha fatto i conti col suo destino e col Novecento

Il contadino che ha fatto i conti col suo destino e col Novecento

Il viaggio nei luoghi dell’immaginario siciliano: Chiaramonte Gulfi / LA GALLERY

Di Salvatore Scalia |

Negli anni del fascismo Chiaramonte Gulfi si poteva gloriare di avere dato i natali a Telesio Interlandi giornalista di Mussolini e direttore della rivista La Difesa della razza. La sua memoria è stata cancellata, ora è il tempo di Vincenzo Rabito, che sembra uscito dalle pagine ottocentesche del barone Serafino Amabile Guastella. La morale rovesciata dei poveri come strategia di sopravvivenza. La vita tranquilla del balcone della Sicilia, patria dell’olio e città dei musei. La saggezza antica dell’ebanista e scultore Janu Catania.

Nella sala della Società operaia di mutuo soccorso in piazza Duomo si discute su chi abbia detto per primo che Chiaramonte Gulfi è il balcone della Sicilia. Che sia anche la città dell’olio è fuori discussione. ”La definizione è attribuita a Mussolini, – sostiene Elisa Ragusa giovane appassionata di tradizioni locali – ma credo che sia un’invenzione.” ”Invece è vero,” replica un signore dai capelli canuti e l’aria di chi la sa lunga.”Dopo la caduta del fascismo ne è stata cancellata la memoria.” Certo non era necessaria la retorica roboante del duce in visita per guardare dalla villa comunale e provare la sensazione di affacciarsi da un balcone. Ci invece voleva un pizzico di fantasia, megalomania e orgoglio paesano per farne non solo il balcone degli Iblei ma di tutta l’isola. Dall’alto dei settecento metri, con il monte Arcibessi alle spalle, lo spettacolo è incantevole, lo sguardo attraversa la piana punteggiata dai tetti rilucenti delle serre, e si spinge fino al mare e alle ciminiere di Gela. Se aguzzi la vista, se hai un po’ d’immaginazione e un binocolo, nelle giornate limpide ti assicurano che puoi scorgere persino Malta.

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Ammesso che la definizione gli appartenga, Mussolini non è l’unico fascista ad essere espulso dalle memorie paesane. Durante il ventennio della dittatura Chiaramonte si poté fregiare dell’onore di avere dato i natali a Telesio Interlandi (1894–1965), brillante giornalista, che fondò con i soldi del duce il quotidiano romano Il Tevere, diresse la rivista culturale Quadrivio, e dal 1938, anno della promulgazione della leggi razziali, il quindicinale La difesa della razza. Fu anche autore di un abominevole libretto antisemita Contra judaeos. La sua parabola si concluse con la caduta di Mussolini il 25 luglio del 1943. Fino ad allora era stato un punto di riferimento autorevole per una folta schiera di giovani intellettuali siciliani che cercavano sostegni e gloria nella capitale d’Italia.

Brancati nella sua giovanile avventura romana collaborò a Quadrivio; Francesco Lanza fu inviato speciale del Tevere; il netino Corrado Sofia cominciò la sua carriera nei giornali all’ombra del giornalista di Mussolini. Nel dopoguerra Interlandi fu un sopravvissuto ignorato ed evitato come la peste, il suo nome divenne bersaglio di generale esecrazione e Chiaramonte si dimenticò di lui. Fu Sciascia a riesumarlo per avere scoperto che, nei mesi convulsi della caccia al fascista, a salvargli la vita era stato un avvocato socialista che lo aveva tenuto nascosto in cantina. Creatore di miti letterari ci vedeva un simbolo di umanità che supera le barriere dell’odio. A scrivere il libro che Sciascia, ormai malato, aveva in mente fu Giampiero Mughini. Ora Chiaramonte Gulfi in Italia è noto per essere il paese di Vincenzo Rabito (1899–1981), il contadino semianalfabeta autore della fortunata autobiografia Terra matta. Il suo ricordo è vivo, allegro, festoso, anche se la sua fama è vissuta con una certa incredulità. È come se a ogni istante ci si chiedesse cosa avesse di tanto speciale visto che letterato non era, e scrittore nemmeno.

Nessuno può negare però che fosse impareggiabile nell’arte del racconto orale, per l’espressività e la capacità di far rivivere all’ascoltatore le proprie avventure, soprattutto nella Grande guerra. Dal 1924 era iscritto alla Società operaia Vittorio Emanuele III e qui aveva il suo pubblico. Le alternative erano il salone di un barbiere a Ragusa, o il rapporto a due con il ragionier Sottile con cui la mattina prendeva il caffè. ”Mio padre – ricorda il figlio Tano – aveva il senso della misura e del pudore, quando capiva che gli astanti si infastidivano o si distraevano cambiava discorso. Chi non apprezzava i suoi racconti era liquidato senza pietà: è tuttu pammini comu a lattuca.” Tano è il figlio fascista. Non voleva studiare, si presentò candidato del Movimento sociale a Marzabotto dove gli rovesciarono il palco del comizio, e causò tante tribolazioni al padre convinto che lo studio fosse un mezzo di emancipazione e di libertà.

”La nostra famiglia è stata lo specchio del Novecento: mio padre di razza socialista, mia madre aveva due fratelli uccisi dai partigiani, io fascista, Turi, il fratello maggiore, democristiano, e Giovanni, il piccolo, psiuppino.” Tano è stato geometra del comune, consigliere comunale e provinciale, ora è un tranquillo pensionato, non è più fascista ma neanche antifascista. Che Vincenzo Rabito, chiuso ermeticamente nella sua stanza battendo sui tasti di una macchina da scrivere, stesse scrivendo la storia della sua vita, in famiglia lo seppero a cose fatte, anni dopo. Teneva tutto chiuso a chiave. “Che sta facendo?” chiedevano i figli dietro la posta sbarrata. E la madre rispondeva: “Non lo so, forse i conti…” I conti, il contadino Vincenzo Rabito li faceva col destino della sua vita e di un secolo, il Novecento. Aveva tribolato ma si riteneva fortunato perché aveva vissuto tante avventure da raccontare e su cui meditare. La sua filosofia era ridotta all’essenziale: in guerra salvare la vita a ogni costo e in pace portare ogni giorno il pane a casa. Le sue giravolte politiche erano adattamento ai tempi e strategia di sopravvivenza.

Con le sue furberie, l’occhio scaltro, la vivacità e la capacità di accomodamento, Rabito sembra uscito dalle pagine geniali di un altro grande figlio di Chiaramonte Gulfi, il barone Serafino Amabile Guastella (1819–1899) autore del libro Le parità e le storie morali dei nostri villani. Il palazzetto aristocratico e la povera casa di Rabito distano pochi metri l’uno dall’altra. Se non fosse per lo sfasamento temporale si potrebbe credere che il barone avesse usato Rabito come cavia; o viceversa che Rabito si fosse ispirato alle pagine dell’altro. La morale rovesciata dei contadini raccontata da Serafino Amabile Guastella giustificava ruberie, inganni, era uno strumento di sopravvivenza e difesa contro oppressioni, angherie, sfruttamento, fame e usura. La versione contemporanea delle Parità si traduce in precari, 41 su cento impiegati al Comune, un centinaio di forestali e ricerca del posto fisso come sinecura. È vero che la raccolta delle olive è un lavoro stagionale ma è anche vero che c’è una comunità di circa cinquecento tra rumeni e nordafricani che forniscono manodopera.

Eppure il sindaco Vito Fornaro, ingegnere elettrotecnico, sostiene che il problema più serio è la disoccupazione. “Con ottomila abitanti siamo un piccolo centro con una grande campagna, 126 chilometri quadrati. Abbiamo dieci oleifici e esportiamo olio nel Nord Europa, in America, Cina e in Giappone. Ognuno qui ha il suo oliveto piccolo o grande.” Anche la Madonna di Gulfi ha il suo olio. Il suo culto mette d’accordo il barone e il contadino, l’artigiano e l’impiegato, il ricco e il povero. La sua leggenda pare scorrere sulla scia della diffusione dell’olivo nel Mediterraneo. Si racconta che nell’Ottavo secolo a Costantinopoli la statua, per sottrarla alla furia iconoclasta dell’imperatore Leone Isaurico, sia stata chiusa in una cassa di legno e affidata alle onde del mare. Fu ritrovata sulla spiaggia tra Scoglitti e Santa Croce Camerina. Qui fu collocata su un carro trainato da buoi e, per evitare contese, si decise che là dove si sarebbero fermati sarebbe sorta una chiesa.

La festa rinnova l’ansia e la frenesia della fuga, tanto che la statua, collocata sul baiardo portato a spalla di corsa, deve percorrere in un’ora i quattro chilometri in salita dal Santuario al Duomo. Se però chiedete a un forestiero cosa gli ricorda Chiaramonte Gulfi, vi risponderà che è il paese dove si magnifica il porco. Ed è la sintesi di una grande tradizione culinaria che ha il suo culmine nel Carnevale. “È l’unica festa – dice il sindaco – su cui maggioranza e opposizione sono sempre d’accordo.” Ed è una tradizione antica di cui Serafino Amabile Guastella illustrò la valenza sociale ed antropologica nel libro L’antico carnevale nella contea di Modica. Chiese, tradizioni religiose e culinarie, l’arco medievale dell’Annunziata, la parlata dolce e musicale, le strade linde e pulite… e i musei che sembrano fortezze inespugnabili. Per una rapida visita non sono valse le insistenze del sindaco, né varie telefonate. Solo l’intercessione di un’amica nostra e del custode ci ha consentito di entrare a palazzo Montesano per restare affascinati dai tesori che vi sono custoditi: museo dell’olio, degli uccelli, del pittore Giovanni De Vita, dei mobili liberty e degli strumenti musicali. In realtà in certi giorni è prevista l’apertura su prenotazione, ma le resistenze, gli impegni improrogabili, erano dovuti a beghe amministrative. Nessuno però potrà ripagare quei quattro sconsolati turisti friulani che hanno trovato i musei chiusi.

“Ci hanno riferito – si sfoga Diana – che il custode è giovane e dorme fino a tardi.” La spiegazione è falsa e velenosa, ma illumina il modo con cui nascono e si alimentano i pregiudizi sui siciliani. ”È il paese della pioggia e della nebbia, quando non piove c’è nebbia. Il resto è noia,” dice la giovane Irene Savasta. Se però fate una visita nel suo laboratorio, a due passi da piazza Duomo, a Janu Catania, ebanista con la sensibilità di artista, non vi annoierete di sicuro. Ha scolpito la sacrestia del santuario, alcune sue statuette, collocate nel museo dell’olio, riproducono personaggi popolari, Causilienti, A nascatisa, Ucciuzzi ri suli. Anche se da giovane, per la guerra, non ha potuto studiare, vi parlerà del problema dei volumi nella scultura, di artisti come Bernini, Donatello e Jacopo Sansovino. Vi colpirà con battute fulminanti, con la sua saggezza antica, e con la sua religiosità essenziale: u poviru nun tinìa e la carità facìa. È stato emigrato in Svizzera, prima in quella tedesca e poi a Ginevra, “città rifugio per eccellenza.” Se gli chiedete di Rabito, vi racconterà dei litigi furibondi con la suocera: “Donna Anna a surda quando apriva bocca era un lanciafiamme.”

Ora i problemi agli occhi gli impediscono di lavorare. ”Chiaramonte – dice – è il paradiso terrestre degli anziani. L’acqua è calma, stagnante.” Un suo amico racconta che questa pace edenica anni fa è stata scossa dal duello rusticano, alla Società operaia Umberto I, tra due ottantenni per i begli occhi di una badante rumena. Siamo al congedo, stringendoci la mano, Janu Ragusa sospira: “Io sto come in una sala d’aspetto. Ogni tanto si apre una porta, qualcuno entra e non torna più.”COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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