Notizie Locali


SEZIONI
Catania 13°

Qui Comiso dalla Cruisetown al fascino dei creativi

Qui Comiso dalla Cruisetown al fascino dei creativi

Il viaggio nei luoghi dell'immaginario siciliano nella città che ha l'arte di sedurre la pietra viva FOTO

Di Salvatore Scalia |
Sulla collina in contrada Canicarao la statua dorata del Budda nella bianca pagoda della pace veglia sulla valle dell’Ippari, su Comiso e sui passeggeri in transito nell’aeroporto. Cruisetown, così Gesualdo Bufalino aveva ribattezzato la città natale, ha riacquistato la sua indole paciosa e laboriosa. Il tempio è rimasto a ricordare che c’era una base militare in cui, al culmine della Guerra fredda, dal 1983 al 1991 sono stati schierati 120 missili nucleari americani Cruise. Tra pacifisti e guerrafondai, tra filoamericani e filosovietici anche Comiso subì profonde lacerazioni.
 
L’unica guerra che ora vi si combatte è di santi: oppone i fedeli della Basilica dell’Annunziata a quelli del Duomo dedicato all’Addolorata. Le chiese sono collocate scenograficamente a distanza di pochi metri l’una dall’altra, ma la barriera che divide i fedeli sembra invalicabile, fortificata da battute frizzanti, beffe, e da sfide all’ultimo fuoco d’artificio.
 
“Siamo lolli,” afferma con ironico compiacimento il sindaco Filippo Spataro del Pd, e intende che per la natura dei comisani qui non attecchisce neanche la violenza della mafia, che pure infesta il vicinato.
 
Nell’aeroporto sbarcano eserciti di turisti attratti dalle spiagge iblee, dal Barocco e dai luoghi del commissario Montalbano. Che sia stato uno dei luoghi dello scontro globale tra le superpotenze, che sia intitolato al capo comunista Pio La Torre, trascinatore di aspre battaglie contro i missili e assassinato dalla mafia, ormai lascia indifferenti. 
 
A vegliare sulla memoria dall’alto della collina c’è il reverendo Gyosho Morishita: ha marciato e pregato per la pace tutta la vita. Venuto dal Giappone, appartiene all’ordine dei monaci buddisti Nipponzan Myohoji, il suo maestro fu seguace del mahatma Gandhi. Avvolto nella tunica arancione e sorridente, ci accoglie nel tempio accendendo due candele e intonando un mantra. Conclusi i rituali ci racconta il suo impegno per la non violenza, le marce per Hiroshima e Nagasaki, quelle in Africa, quella di sei mesi da New Orleans a New York, o l’altra da Stoccolma a Mosca; la volta che arrivò a Vienna e apprese che il governo italiano aveva acconsentito all’installazione dei missili a Comiso. La Sicilia dal 1982 è divenuta il luogo della sua testimonianza. La pagoda nel cuore del Mediterraneo veglia sulla linea di confine tra il Nord e il Sud.
 
 
La causa delle guerre, spiega, è nell’industria degli armamenti, la religione è solo un pretesto.  «L’Italia – continua – purtroppo non è ancora indipendente. A Niscemi, Trapani e Sigonella transitano armamenti, soldati e mezzi americani senza rendere conto al governo di Roma».
 
A settantadue anni il reverendo Morishita è stanco, le ginocchia non reggono più e non lo si vede neanche per le vie della città a pregare e marciare. Un anno prima del dispiegamento dei missili, Comiso divenne improvvisamente centro dell’attenzione nazionale per uno di quei casi letterari che tanto appassionano il pubblico: la scoperta del professore Gesualdo Bufalino, che, auspice Leonardo Sciascia, aveva pubblicato un romanzo, Diceria dell’untore, salutato come un capolavoro. L’evento, forse fortuito o forse ben costruito, ebbe un forte impatto, attirando frotte di giornalisti. E fu la rivelazione non solo di un solitario cultore della scrittura, ma di una realtà fertilissima e ricca di talenti. Del pittore Salvatore Fiume, che viveva a Milano, si sapeva, ma si scoprì una città di artisti dove il gusto del bello si alimentava anche dell’artigianato raffinatissimo delle botteghe di scalpellini. Non a caso nel 1907 vi era nata la Scuola d’arte. 
 
S’incontravano i pittori Biagio Blancato e Francesco Giombarresi, il naïf che entusiasmò Sciascia, lo scrittore Nunzio Digiacomo, i poeti Carmelo Lauretta e Carmelo Depetro. Si riscopriva che era la città nativa di Biagio Pace, deputato fascista ma soprattutto insigne archeologo. Il caso Bufalino costituisce il vanto della Pro Loco di Comiso. Ce lo ricorda la presidentessa Maria Rita Schembari. Il professore aveva pubblicato su un volume edito dalla Pro Loco, Comiso viva, un saggio dedicato a un fotografo comisano dell’Ottocento, il nobiluomo Gioacchino Iacono Caruso. Nello scritto erano profuse tanta sapienza e inventiva stilistica oltre che intelligenza delle cose, da suscitare la curiosità di Sciascia ed Elvira Sellerio, che fiutarono le qualità di un grande scrittore. La signora dell’editoria insisté tanto fino a quando il restio professore di provincia uscì dal cassetto il manoscritto di Diceria dell’untore.
 
La Pro Loco, che ha 130 soci, è arredata con gusto, ben curata, con bei quadri alle pareti. Si respira una piacevole atmosfera salottiera. Abbiamo trovato tre donne e un uomo. «Qui – scherza la presidentessa – vige il matriarcato». E spiega che nei suoi cinquant’anni di vita solo per il primo anno la Pro Loco è stata presieduta da un maschio. L’ospitalità sembra ispirata al motto pi acqua e gintilìa o Comisu ‘n si pinìa. L’abbondanza di acqua è testimoniata nel cuore della città dalla Fonte Diana davanti al municipio. La gintilìa, che in origine indicava aristocrazia di sangue, si è democratizzata in nobiltà d’animo e di modi. Mentre ci illustrano le iniziative per valorizzare la città, entra un’altra socia, Pina Lucenti. «Ancora matriarcato!» esclama la presidentessa. Altro modo di dire ci riferisce il sindaco Spataro laureato in Scienza della Comunicazione: «Chi fai u cumisanu cu mia?». L’espressione risale all’arte del mercanteggiare, del fare il furbo e trattare al ribasso, legata alla tradizione di una città di commercianti e di carrettieri che, racconta Pina Lucenti, partivano carichi di ortaggi e tornavano carichi di stracci per la cartiera inaugurata nel 1733 e che era stata voluta dal conte barone Baldassare V Naselli, ambasciatore di Carlo V e protagonista della pace di Cambray nel 1725.
 
A costruire l’opificio, che sfruttava la acque dell’Ippari, fu chiamato da Genova Michelangelo Cannape. Fu fonte di benessere, così come lo fu il ricorso dei baroni all’enfiteusi che favorì lo spezzettamento della proprietà. Comiso ha trentamila abitanti di cui duemila sono rumeni e tunisini. Da qui non si emigra più verso il Belgio o Paterson nel New Jersey. Il Comune ha 225 dipendenti di cui 137 part time. Vi sono una quarantina di piccole e medie aziende prevalentemente a conduzione familiare. La disoccupazione è intorno al 15 per cento. Alla crisi delle serre s’aggiunge il dissesto finanziario del Comune pagato con lacrime e sangue. Dopo cinque anni s’intravede la fine e il sindaco spera in una nuova rinascita economica e culturale. Ne trarrà beneficio, si augura il presidente Renato Meli, anche la Fondazione Bufalino, che, nonostante custodisca i diecimila volumi e le preziose carte dello scrittore, ha rischiato di chiudere.
 
Il turismo grazie all’aeroporto, che ha fatto registrare il raddoppio dei voli e un notevole incremento di passeggeri, prende vigore, anche se le bellezze architettoniche e i tesori artistici della città non riescono ad avere la stessa visibilità delle città del Barocco.  Comiso è luogo di artisti e creativi. Qui anche un barista come Gianfilippo Zago esercita il suo estro intorno alla comune tazza di caffè: ne ha inventate trenta varianti. Se chiedete un espresso, diventa una sfida: ve ne prepara uno a suo piacimento assicurando che, se non vi piacesse, ve ne farà un altro.
 
Qui è naturale esprimersi per simboli e astrazioni come nelle sculture di Francesco Scalambrieri, che ha lavorato alla Rai come sceneggiatore. Pochi elementi messi insieme, attraverso un linguaggio metaforico, costruiscono nella loro elementarità un’epopea: di migranti, di misteri della creazione, di potenza della natura. Le sue proporzioni e i rapporti spaziali sono aritmetica pura. 
 
«A illuminarmi è stato Piero della Francesca, una volta che ero costretto a letto per un incidente». Sfioriamo con le mani una scultura e se ne compiace, perché, spiega, l’arte si deve sentire con l’anima e i sensi. Il pittore Maurizio La Cognata lavora in campagna, in un palmento ristrutturato. Vive il disagio del nostro tempo distratto dalla tecnologia e refrattario all’arte. Nell’atelier sono accatastati molti quadri in preparazione di una mostra. È un uomo disilluso. Due grandi tele ritraggono la madre a 15 anni di distanza. Nell’una la donna è ancora legata alla terra, lo sguardo avido s’impossessa delle cose; nell’altra guarda lontano, sembra assente, distaccata, intenta a scrutare oltre l’esistenza terrena.  «Dipingere mi sembra più che altro un appagamento personale. Mi chiedo che cosa valga l’arte se non incide sulla società».
 
Comiso giace pigramente distesa tra le estreme pendici degli Iblei e la valle dell’Ippari. Le strade mostrano le ferite geometriche delle montagne da cui nei secoli si è estratta una pietra pregiata. Esaurite le cave, dello spazio si sono impossessate le case. Ora l’attività è ripresa nel Cozzo di Apollo, ma è tutto cambiato. Il vecchio mondo dei pirriaturi e degli scalpellini, tra i duemila e i duemila e cinquecento per una cinquantina di aziende, è tramontato negli Anni sessanta del Novecento. Le linee geometriche ed essenziali dei nostri tempi hanno perso il gusto dell’ornato, del fregio, di archi e chiavi di volta che personalizzavano portoni e finestre, anche di abitazioni modeste. Grazie all’abilità degli scalpellini il senso del bello era patrimonio comune. 
 
E non si dà pace Filippo Vapore, scultore e proprietario di un’azienda che lavora pietre e marmi, per la mancanza di committenti raffinati, per l’insensibilità degli architetti e degli enti pubblici. Come si fa a non subire il fascino di un capitello corinzio? Di una foglia d’acanto? O di un draghetto che s’arrampica per il fogliame?
 
«Quando ti entra dentro la polvere della pietra non te ne liberi più. Se hai davanti a te un blocco cominci ad esplorarlo cercandone l’intima bellezza e armonia. Lo devi carezzare perché sprigioni la sua anima che incontrerà la tua».  La pietra per lui è materia viva, e come un innamorato applica ogni arte della seduzione per ammorbidirne le resistenze e trarne un piacere estetico. Enumera tipi e caratteristiche: sarvagghia, carruara, crapazza, latina, la più nobile e di colore chiaro con poche venature, a sisa buona per il selciato. Vapore racconta di insuperabili maestri del passato: Diego Catalano e Gaetano Barone. Di quest’ultimo ricorda di quando gli si spezzò la foglia d’acanto di un capitello corinzio. Avrebbe potuto incollarla con il mastice ma un artista come lui non poteva consegnare un’opera se non perfetta. Rifece tutto il capitello.
 
«Questi erano i personaggi di Comiso! Perché qui non si è fatto come a Pietrasanta? Perché non si è saputo conservare un patrimonio di immenso valore?». Gli scalpellini, che profusero la loro arte in tutta la Val di Noto dopo il terremoto del 1693, sono un ricordo o dispersi per le varie parti del mondo, dove ancora resiste un briciolo di buon gusto da soddisfare. Tra i creativi di Comiso spicca uno studioso di paleontologia, Gianni Insacco, che ha fornito i primi settemila reperti da lui raccolti per la creazione nel 1991 del sorprendente Museo civico di storia naturale, di cui è conservatore scientifico. Abbiamo avuto il privilegio di essere guidati da lui tra le diverse sezioni, incantati dai fossili di varie ere geologiche provenienti dai vari continenti e testimonianza delle tappe fondamentali della vita: dai primi organismi, ai pesci corazzati del Paleozoico, dalle ammoniti ai grandi rettili che colonizzarono il mondo durante il Mesozoico fino ai mammiferi del Quaternario, uomo compreso.
 
La sala per noi più affascinante è quella dedicata ai resti fossili di vertebrati del Quaternario siciliano, quasi tutti provenienti dal comprensorio comisano e ibleo. Di questi fanno parte i resti di elefanti nani, che sono i più antichi della Sicilia e risalgono a 650.000 anni fa.  Antonello Lauretta, appassionato cultore di storia patria, non ci concede di lasciare Comiso senza uno sguardo ai dipinti del soffitto ligneo del Duomo, ai quadri della Basilica dell’Annunziata, e alla chiesa di San Francesco in stile gotico catalano, che custodisce il sarcofago rinascimentale di Gaspare Naselli, opera di Antonello Gagini, su cui è posta la statua del defunto placato nel sonno eterno. Vorremmo ripartire con questa immagine di pace, ma la guerra dei santi ci tende un agguato. Ed ha il volto e la figura del presidente della confraternita dell’Annunziata che agita un foglio di giornale, indispettito per un titolo in cui erroneamente alla chiesa dei rivali è stata attribuita la dignità di cattedrale. Non può gridare al complotto ma non rinuncia al sarcasmo: «Il vescovo mi ha detto che lascia Ragusa e si trasferisce nella nuova sede di Comiso».
COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA