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Goliarda Sapienza raccontata dal marito: «Scriveva da donna, ma non solo per le donne»

Di Maria Lombardo |

CATANIA – Oggi che la scoperta della sua opera procede velocemente (tradotta in 18 lingue e distribuita in 28 Paesi), Goliarda Sapienza (scomparsa nel 1996 e misconosciuta in vita), sarebbe felice. Troppo audace per i suoi tempi.

Grazie al lavoro attento e intelligente di Angelo Pellegrino, curatore dell’opera e già marito di Goliarda, si moltiplicano pubblicazioni e iniziative. De “La nostra parte di gioia. Letteratura e studi di genere” si è parlato al Disum dell’ateneo etneo con la presentazione di saggi di Alberica Bazzoni e Maria Rizzarelli e la partecipazione di Maria Rosa De Luca coordinatrice del progetto dipartimentale OPHeLiA e di Angelo Pellegrino.

Pellegrino, concorda sul tema?

«Non dico che mi trovo a disagio perchè capisco le esigenze delle studiose ma non è tutto qui. L’opera va analizzata attraverso la critica dell’arte letteraria. Finora solo attenzione per la parte tematica e per l’ideologia che indubbiamente c’è. “L’arte della gioia” è piena di citazioni stilistiche. Ancora nessuno studio stilistico, narratologico. Goliarda è come sepolta in un’arca del ‘900, tira calci e vuole essere liberata. Dopo letteratura femminista e gender studies, è ora di cominciare ad affrontare la scrittrice tout court. Scriveva da donna ma non voleva riferirsi solo alle donne».

Ci sono manoscritti non ancora pubblicati?

«Gli epistolari che usciranno per Nave di Teseo a inizio del 2019 (“Lettere minute e biglietti”: il titolo è mio) e a gennaio a Parigi “Carnets” per Le Tripode».

Scandalosa per i suoi tempi.

«Voleva donare alla letteratura un personaggio femminile che secondo lei mancava. Voleva fare gli anti – Promessi sposi».

Il rapporto con Catania negli ultimi anni?

«Fu sempre impregnata di catanesità. Figlia di madre per l’ideologia, è il genitore che le istilla l’amore per il teatro affidandola ad Angelo Musco col quale recita a 14 anni. A Catania l’ho riportata io nell’ultima parte della vita. La ferita che l’aveva indotta a non tornare più era lo sventramento di San Berillo e della Civita: quartieri della sua infanzia. In “Io, Jean Gabin” c’è una Catania profonda. I versi di “Ancestrale” sono fatti di mitología etnea».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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