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Candido Cannavò, una vita in rosa e molto altro ancora

Di Nino Milazzo |

Dieci anni fa, il 22 febbraio 2009, si spegneva Candido Cannavò, che ha fatto la storia de “La Sicilia” prima di guidare per vent’anni la “Gazzetta dello Sport”. Un campione del giornalismo italiano, un uomo di grande cultura e di altrettanta umanità. A dieci anni dalla scomparsa ricordiamo il “nostro” Candido ripubblicando il ricordo tratteggiato su “La Sicilia” da Nino Milazzo, che con Cannavò visse anni intensi prima nella nostra redazione poi a Milano, in via Solferino, l’uno al “Corriere della Sera”, l’altro alla “Gazzetta dello Sport”.

Ora che se n’è andato sento il bisogno di rileggere alcune delle sue pagine più belle. I libri di Candido Cannavò sono bene in evidenza in uno scaffale della mia biblioteca di casa. Li voglio custodire come un’eredità preziosa. Mi aiuteranno a rivivere in ogni momento le esperienze di un sodalizio che ha arricchito e ravvivato la mia vita. Che cosa ci raccontano questi libri?

«In principio fu la guerra con i suoi orrori e pericoli. E le privazioni, la paura. La memoria torna alla spettrale Catania del ’43, investita da un uragano di bombe. Poi l’intensità del ricordo si stempera nella luce incerta di un orizzonte senza promesse. Il dopoguerra scaccia gli incubi della violenza, ma non offre subito tutti i frutti della pace. E il risveglio è faticoso. Che fare?»

Questa è una storia vera, bella come una bella fiaba. Candido Cannavò ha perduto il padre quand’era ancora un bambino, ma la mamma, «una sarta siciliana che ama Parigi», è una donna saggia che lo sa guidare, assieme al resto della nidiata. Passata la tempesta, bisogna inventarsi una vita. A lui non fa difetto la fantasia. E qualcosa di buono accadrà. Superati gli anni difficili e febbrili dell’adolescenza e della prima giovinezza fra le macerie di un mondo ancora smarrito e ferito ma finalmente proteso nello sforzo della ricostruzione, egli cerca un futuro, che non gli appare molto decifrabile.

Studia per diventare medico, ma forse insegue l’avventura. Scopre la passione per l’atletica: infatti corre, epperò non vince. Finché capisce che il suo destino è un altro, dev’essere un altro. Candido è un ragazzo piccolo e magro, il brutto anatroccolo, dotato di una volontà di ferro e di un aureo talento. Lascia i sentieri impervi del cross e ne imbocca uno diverso, non meno impegnativo e forse più insidioso, nel quale egli può vincere, sa vincere: vincerà. Tramonta l’atleta, nasce il giornalista.

In questo passaggio si rintraccia, in qualche modo, la metafora di un percorso esistenziale segnato dalla determinazione, dalla fiducia, dall’amore. E dall’intelligenza, che permette di accettare anche le sconfitte e, soprattutto, impedisce di trasformare i trionfi in arroganza.

Candido Cannavò ha ricostruito questo percorso nel primo dei suoi quattro libri (tutti Rizzoli). È un esordio denso di suggestioni e carico di seduzione già a partire dal titolo dell’opera: “Una vita in rosa”. Un racconto che è molto più che autobiografico, perché raccoglie e descrive «cinquant’anni di personaggi, avvenimenti, incontri, storie», come si legge sotto il titolo di copertina.

Già, la copertina: vi campeggia una foto di Cannavò sorridente, che indossa una strana, simpatica giacca che sembra (o è?) fatta con i ritagli della Gazzetta dello Sport, il giornale che egli ha diretto per oltre diciannove anni (diciannove anni!), portandolo a incredibili posizioni di primato nel panorama editoriale nazionale. È qui, in questo giornale, che Cannavò tocca la vetta più alta della scalata che egli compie pedalando sui tornanti di una professione complicata. Il suo colore, il colore di quel giornale, come si sa è il rosa. E questo particolare spiega il senso della scelta dello scrittore. Spiega come, assieme alla famiglia, la “rosea” stia in cima agli amori di Cannavò, ai suoi interessi, ai suoi ricordi.

Insomma: quella “vita in rosa” è la sua vita. Che si sviluppa sull’asse Catania-Milano, fra “La Sicilia”, il giornale nel quale si è formato ed è maturato, e la “reggia” di via Solferino, ma che si dipana e si realizza pienamente lungo le mille e mille strade del mondo. Il grande Francesco Merlo, nella prefazione, osserva che siamo di fronte a un autentico romanzo popolare, intriso di «una vena di severità, di allegria, di forte ottimismo e di democrazia intesa come gara sportiva, come competizione fra uguali».

Certo, lo sport è il campo dove Candido Cannavò ha lasciato i semi più fecondi del suo magistero professionale. E quel minuto di silenzio, vibrante di rispetto e di rimpianto, che ieri il popolo degli stadi ha tributato alla sua memoria è una testimonianza di questo rapporto. Ma la personalità di Candido Cannavò non si è mai asserragliata tra i recinti della sua specializzazione giornalistica. Il suo sguardo si è spinto oltre sin da quando – erano gli Anni Settanta – ha voluto penetrare il mondo dei “lazzaretti di Sicilia” producendo un’inchiesta fra le più approfondite e incisive del giornalismo siciliano.

Era un indizio. Poi l’impegno si è intensificato e quando, più tardi, il giornalista si è fatto scrittore, Cannavò ha liberato tutte le sue risorse di uomo e di intellettuale sensibile ai temi della socialità. E, obbedendo a questa vocazione, ha dato vita a una “trilogia” attraverso la quale è riuscito a coniugare il gusto della narrazione con la capacità della testimonianza, col bisogno segreto, intimo, inconfessato di difendere i diritti delle minoranze meno fortunate in una società che – crisi o non crisi – è abbagliata e distratta dalle lusinghe dell’apparire, dalle seduzioni dei consumi, dagli egoismi del privato, dagli stimoli di una competizione senza frontiere e senza quartiere.

Dapprima, è stato il dramma concentrazionario delle carceri a ispirare la vena narrativa e l’istinto, per così dire, “missionario” di Candido Cannavò. “Libertà dietro le sbarre” – questo l’ossimorico titolo di quel libro – ha rappresentato un forte segnale di mobilitazione delle coscienze individuali e delle responsabilità pubbliche attorno alle aspettative e alle sofferenze delle tante persone che hanno colpe da scontare ed errori da pagare. L’operazione è continuata con “E li chiamano disabili” quando Cannavò si è calato nel pianeta dei disabili o dei diversamente abili, come, con una puntigliosa messa a punto semantica, la pubblicistica più accorta definisce le persone che sono segnate da tutta quella serie di menomazioni indotte dalle dinamiche misteriose della genetica o provocate dalle avversità della vita. In questo commosso e commovente viaggio nel mondo dell’handicap, egli scopre miracolosi trionfi di umanità, di fantasia, di intelligenza, ma anche di emarginazione vissuta con la forza di una tenace ricerca di normalità.

Infine, “I pretacci”, che chiude l’avventura del Cannavò scrittore spingendolo lungo le strade nelle quali si rintracciano le orme dei molti tedofori della fede che portano la luce del Vangelo laddove più forte è il bisogno di una solidarietà attiva, militante,operosa.

In una tappa di questo tour gli sono stato al fianco e, vedendolo all’opera mentre parlava con uno dei suoi “pretacci”, ho compreso meglio la generosità di quest’uomo semplice e buono, che non è stato solo il cantore dello sport, ma uno strenuo paladino delle buone cause.

Per me Candido è stato come un fratello. Il suo esempio, come il suo ricordo, mi farà compagnia per tutti i giorni che mi restano da vivere.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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