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Bonisoli, ministro dei beni culturali: «I tesori della Sicilia allo Stato»

Di Mario Barresi |

Alberto Bonisoli, ministro dei Beni culturali, anche lei, come tutti gli altri suoi colleghi, ha già preparato gli scatoloni? Questo governo gialloverde sembra comunque al capolinea…

Noi lavoriamo e continuiamo a lavorare. Oggi è il 17 agosto e siamo ancora sul pezzo. Andiamo avanti finché ci sarà la possibilità di farlo».

Salvini ha detto: addio agli alleati del no. Ora dice: via i ministri del no.

«Se il nostro partner di governo decide di non continuare adducendo la ragione che il Movimento 5Stelle è il movimento del no, è una cosa che, mi dispiace, non riesco ad accettare. Nel mio ministero, ad esempio, noi di cose ne abbiamo fatte, ma soprattutto ne abbiamo moltissime in preparazione. Ci sono almeno due leggi delega, da approvare in autunno, che mettono le mani su tutto il mondo dei beni culturali e sullo spettacolo dal vivo, compresi gli animali da circo e le fondazioni liriche. Non abbiamo passato questi mesi inermi. Ed è inaccettabile il fatto che quest’esperienza finisca con l’accusa di non aver fatto nulla».

Qual è il provvedimento che le dispiacerebbe di più non portare a termine a causa della caduta del governo?

«Ce ne sono diversi. Quello che veramente mi dispiacerebbe di più non portare termine è il provvedimento che riguarda le assunzioni. Quando sono arrivato ho trovato un ministero ampiamente sotto organico, come tanti altri. Però tenga conto che quello dei Beni culturali è un ministero piccolo, con presenza diffusa sul territorio, fra musei e archivi di Stato, e un’età media di dipendenti molto alta. Nei prossimi tre anni andranno in pensione fra 3mila e 4mila dipendenti su un totale di 16mila. Abbiamo discusso con tutti, dal Tesoro alla Funzione pubblica, abbiamo lavorato bene in Finanziaria e adesso, dopo aver pubblicato un bando per i primi 1.052 posti per vigilanti e custodi, siamo pronti per un importante programma di assunzioni per dare ai cittadini i servizi di cui hanno bisogno. È chiaro che nel momento in cui questo sforzo si interrompe, la funzionalità del ministero dei Beni culturali è a rischio».

C’è anche la nuova governance degli enti lirici, che non potranno più essere guidati dai sindaci.

«C’è anche questo, ma il discorso è ancora più ampio. La lirica in Italia vive da anni una situazione di quasi perenne emergenza, con problemi di varia natura: un livello finanziario, uno di governance. Penso che sia giunto il momento di dare una stabilità al settore. Uno dei passaggi è quello a cui lei accennava. Bisogna tirare un po’ più fuori le decisioni di tipo politico dalla gestione. Secondo me i presidenti di una fondazione lirico-sinfonica non dovrebbero ricoprire cariche elettive. Poi io sono convinto che se non ci sono legami di parentela fra sovrintendenti e funzioni apicali è meglio. E magari nelle prossime norme questa incompatibilità sarà esplicitata».

In Sicilia c’è stata una sollevazione dopo che ha espresso perplessità sulla riconferma del sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo, Giambrone, in quanto fratello del vicesindaco di Orlando. Poi, però, ha firmato la nomina. Ha cambiato idea?

«Non ho mai cambiato idea. Il dibattito è stato un po’ surreale. Io ho fatto una domanda: se, ad avviso del Consiglio d’indirizzo della fondazione del Massimo, fosse opportuna lla nomina, visto il livello di parentela così stretto. Il sindaco di Palermo, quando si trova al Comune ha un fratello che è il suo vice, quando va al Teatro Massimo, di cui è presidente, si trova l’altro fratello sovrintendente».

Ma in molti, anche nel mondo della cultura, sostengono che Giambrone abbia lavorato bene.

«Io non ho mai messo in dubbio questo. Non so neanche di che colore o orientamento politico sia Giambrone. Il mio ragionamento è un altro: se volesse partecipare a un concorso per diventare sovrintendente e sapesse che il sindaco, ovvero chi ha il compito di controllare, ha come vicesindaco il fratello di uno degli aspiranti, lei si candiderebbe? Le dirò di più. Ci lamentiamo che tanti ragazzi lasciano il Sud e vanno a lavorare all’estero. Provi a guardare la situazione da New York o da Londra. Le verrebbe voglia di ritornare a Palermo? Poi io non entro ne merito: il Consiglio di indirizzo ha deciso di nominare Giambrone, per me va bene. Ci mancherebbe che mi mettessi a interferire con la gestione di un teatro. Ma a volte nella comunicazione il comportamento vale di più di quanto diciamo. E qui il comportamento è oggettivo. Mi sarebbe piaciuto che questa mia riflessione fosse stata considerata, ho visto dal verbale che non lo era. Ho chiesto un ulteriore pronunciamento, così è stato. Il caso, per me, è chiuso».

La Sicilia, in materia di beni culturali, gode di una super autonomia: il nostro assessore regionale ha di fatto i suoi stessi poteri. Quanto perde l’Isola, così slegata dal resto del Paese?

«Per risponderle dovrei entrare nel merito di alcune scelte fatte dalla Regione Siciliana. E non mi sembra molto elegante. Le posso però fare una considerazione di fondo. Secondo me c’è un aspetto di tutela del patrimonio culturale che sono convinto debba essere svolto a livello nazionale. Non c’è al riguardo un unico modello: negli Stati federali, ad esempio, queste funzioni sono assegnate al livello regionale. Ma l’Italia è uno Stato unitario e secondo me tutto quello che riguarda la tutela dovrebbe essere centralizzato. E ciò vale anche per la tutela oggi a carico della Regione Siciliana».

Insomma: la Regione non merita la gestione dei tesori siciliani…

«Non dico questo. Ci sono forme di cogestione, modelli per poter lavorare assieme. È una delle cose a cui stavamo pensando anche nell’ambito dell’Autonomia differenziata. Sono convinto che la tutela dei beni culturali debba essere statalizzata. Così come la gestione e la valorizzazione di siti che hanno una valenza di tipo, mi passi la semplificazione, internazionale».

Lei, in sostanza, dice: la Valle dei Templi non può essere gestito come un patrimonio regionale…

«Certo: se succede qualcosa, non è un problema siciliano, ma riguarda tutta la nazione. La invito, anche in questo caso, a guardare la cosa dall’esterno. Se succede una cosa al Cenacolo di Milano, non è che se la prendono con il governatore lombardo… Poi, sulla gestione dei beni culturali in Sicilia, ho un doveroso rispetto di quanti fanno del loro meglio».

Sebastiano Tusa ha lasciato un vuoto enorme. Lo conosceva?

«Purtroppo no. Ci siamo incrociati. Ma non ho avuto il piacere di conoscerlo di persona».

Il governatore Musumeci mantiene da mesi l’interim: «Voglio trovare un tecnico di alto profilo che sia all’altezza di Tusa», dice. Condivide?

«Se parliamo del patrimonio culturale presente sul suolo siciliano, senz’altro. Serve qualcuno di grande spessore, ma anche di grande esperienza, secondo me».

L’Unesco ci ha più volte bacchettati per come la Sicilia tiene i siti Patrimonio dell’Umanità. Come si può invertire la tendenza?

«L’Unesco questo lo fa non solo sulla Sicilia. E noi ne abbiamo tanti siti in Italia. Questo mi riporta al ragionamento di prima. Alcuni aspetti di tutela e di protezione sono più efficaci se c’è un po’ più di distanza tra l’ente o l’istituzione che deve monitorare e le dinamiche locali. Una distanza che consente di avere un distacco, anche critico e un po’ smaliziato, utile a capire cos’è opportuno fare. Ci sono alcune cose definite per legge, e va bene. Ma c’è tutta una serie di sfumature che bisogna saper gestire».

Quali sono queste sfumature?

«Le faccio un esempio non siciliano, per darle un’idea super partes, senza offendere nessuno. A un certo punto era emersa la proposta di far montare una grande ruota panoramica accanto agli scavi di Pompei. Se io sono il sindaco di Pompei posso vedere la questione, anche legittimamente, dalla mia prospettiva, ad esempio l’introito che posso avere dalla società che vuol montare la ruota panoramica. Ma è chiaro che, a livello nazionale, è una cosa che non si può vedere! Una maggiore distanza aiuta ad avere un atteggiamento anche più sereno, al netto delle polemiche locali».

Se si dovesse risolvere la crisi di governo o se lei restasse ministro con un’altra maggioranza, nel suo cassetto c’è un provvedimento con ripercussioni, anche indirette, importanti per la Sicilia?

«C’è, come le dicevo, tutto ciò che riguarda la riforma dei beni culturali, di cui alcuni aspetti sono tipicamente di gestione locale, anche siciliana, mentre altri possono influenzare la Sicilia. C’è poi tutto il discorso dello spettacolo dal vivo, perché la lirica ha bisogno di una riforma urgente. E poi c’è il tema della lettura. C’è una legge che è già passata alla Camera – senza un voto contrario, il che è significativo – a in autunno è attesa in Senato. Siamo tutti d’accordo su un tema che è troppo importante per dividersi».

Lo è a maggior ragione in una regione che è fanalino di coda nel rapporto abitanti-lettori… Cosa dice la legge a cui tiene così tanto?

«La legge sulla lettura è quella che, ad esempio, vuole dare nuovo ossigeno alle librerie. Mettendo, per la prima volta, dei limiti a soggetti, mi riferisco alle grandi piattaforme digitali, che nel settore ci stanno e ci staranno in futuro. Però se questi colossi hanno dei limiti in alcuni aspetti, ad esempio nella scontistica, il mercato viene aiutato a essere più vivo e diffuso, evitando un’eccessiva concentrazione, che nel caso dei libri è molto pericolosa. Perché, nel momento in cui io sono la piattaforma che vende l’80 per cento dei libri in Italia, basta che io censuri il suo libro e lei scompare. E questo è un principio che non ha a che fare solo con l’economia, ma con la società di questo Paese. I libri fanno girare le idee. E io in libreria voglio trovare libri che non mi piacciono perché affrontano un tema con una visione completamente opposta alla mia. Il giorno che non ci saranno più, mi dovrò chiedere se siamo in un Paese libero».

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