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L’etica sciasciana laica, rigorosa e incrollabile

Di Salvatore Scalia |

Leonardo Sciascia è stato il faro della mia giovinezza, fino al 1979 quando, dopo la lettura di “Candido”, la sua candidatura alla Camera mi indusse a votare per il Partito radicale di Pannella, di cui apprezzavo le battaglie civili e libertarie ma non l’ambigua collocazione politica.

Lo scrittore ci illuminava di saggezza, ci spiegava cos’era la mafia, corroborava la nostra indignazione per i compromessi e le ipocrisie, per la corruzione diffusa, per i paradossi di una democrazia che soffriva di incompiutezza costituzionale. Rivelava satiricamente le ipocrisie di trasformismo e comunismo. Alimentava la passione per il dubbio sistematico.

E soprattutto ci trasmise il suo amore per Voltaire, del cui Candido l’omonimo personaggio sciasciano era imitazione e omaggio.

Se dobbiamo pensare alla sua eredità più importante e duratura, è proprio l’averci indotto a osservare il mondo attraverso lo stupore di una finta innocenza dietro cui si cela lo sguardo acuto e indagatore, disincantato e dissacrante degli illuministi. Da qui il mio amore per Voltaire, e soprattutto per Diderot.

Quanto a Pirandello, era un passaggio obbligato, una reverenza dovuta al padre nobile, ma la sua laicità, il suo rovello logico, per quanto permeato di umorismo, era quanto di più lontano si potesse immaginare dall’ariosità briosa dello spirito illuminista. In Sciascia convivevano le due istanze, la prima come gioia della ragione, la seconda come tormento e paradosso etico.

La prima volta che lo incontrai fu ad Acireale, doveva scrivere per l’Espresso un articolo sull’opera dei pupi. Ero giovane e trepidante, tentavo di guardare con i suoi occhi lo spettacolo e di immaginare cosa ne avrebbe scritto. Quando lessi il resoconto, era un articoletto giornalistico in cui contavano essenzialmente la notizia che Orlando e Rinaldo calcavano ancora la scena, nonché la firma prestigiosa dello scrittore siciliano.

Poi gli incontri si sono ripetuti, amichevoli e professionali. Interviste, partecipazioni a convegni e premi letterari. A Enna al premio Savarese, che aveva tentato di resuscitare, mi fece conoscere lo scrittore Andrzej Kušniewicz, un aristocratico ed ex diplomatico polacco che ai tempi d’oro, prima del comunismo, aveva girato la Sicilia in Bugatti.

Al premio Racalmare a Grotte fece premiare Manuel Vazquez Montalban, da cui deriva il nome del commissario di Andrea Camilleri. Al pranzo c’era anche Elvira Sellerio. Mi rimase impresso il modo in cui, in una circostanza, lei, imperiosa e civettuola, lo zittì. Segno di come uno degli intellettuali più importanti d’Italia, essendo rimasto in fondo all’anima un timido provinciale, subiva il fascino di una donna spigliata e cresciuta nei salotti buoni di Palermo.

Il delitto Moro e il libro sull’Affaire Moro nel 1978 mi avevano suscitato le prime perplessità. Non mi piacque l’equidistanza tra Brigate rosse e Stato che, se pur corrotto e inefficiente, per me restava il frutto dell’antifascismo e della Resistenza. Allo stesso modo, nonostante alcune pagine notevoli per analisi e ironia affilata, mi lasciò deluso il libro sull’assassinio del capo democristiano, forse perché non esaudiva le troppe aspettative di clamorose rivelazioni.

Poi ci furono altri motivi di dissenso alternati ad altri di ammirazione. Apprezzai la chiaroveggenza con cui affrontò la follia persecutoria degli inquisitori nel caso Tortora, un innocente vittima di una abnorme macchinazione giudiziaria. Ritrovavo l’amato Sciascia voltairiano di “Morte dell’Inquisitore”. Il dissenso più grave, dopo la nomina di Borsellino a procuratore di Marsala, fu dovuto al suo attacco contro i professionisti dell’antimafia sulle colonne del “Corriere della Sera”. Scrissi su “La Sicilia” un articolo criticandolo per un eccesso di raziocinio che sfiorava il cinismo.

La venerazione comunque si mutò stabilmente in rispetto, tanto che fui orgoglioso di ospitare sulle pagine culturali de “La Sicilia”, la sua firma e i suoi articoli per lo più letterari che con grande generosità donava a un giornale della sua isola.

A trent’anni dalla sua morte gli siamo ancora grati di aver guidato le nostre giovinezze, altrimenti smarrite. Ci ha educati a dissentire, anche da lui stesso, a sottoporre al vaglio della ragione ogni cosa, a non dare nulla per scontato, anche a rischio di sbagliare, ma meglio il dubbio che la fede cieca; e così, lui che aveva vissuto la sua giovinezza nell’oppressione della verità totalitaria del fascismo, ci ha aiutati a liberarci dai dogmi. Con gli anni siamo approdati ad altri lidi, ad altre letterature, abbiamo subito altre fascinazioni, allontanandoci sempre più dall’angustia dell’isola e dall’autocontemplazione compiaciuta, ma abbiamo seguito sempre la rotta di un’etica sciasciana, laica, rigorosa e incrollabile.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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