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Con Manzoni la riflessione su giustizia e impostura

Di Nicolò Mineo |

Se esiste – come esiste – quella che vorrei chiamare “funzione Manzoni” in Sciascia, questa è in gran parte in “Storia della colonna infame”. L’opera, scrive lo scrittore di Racalmuto nell’introduzione a un’edizione del 1973, in cui «l’intelletto del Manzoni era giunto al suo equatore». Essa «prefigura il genere dell’odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario». Un racconto su cui, allora come ora, si preferisce elevare una cortina di silenzio. Ma, continua lo scrittore, riferendo le parole del Manzoni, l’essenziale è non aver taciuto su «quel che è sembrato vero e importante alla coscienza. Alla sua coscienza, alla nostra. Alla nostra di oggi, alla nostra di fronte alla cosa e alle cose di oggi».

Il coinvolgimento personale, anzi una sorta di identificazione sono evidenti. La riflessione sulle condizioni, i limiti e i pregiudizi del giudizio e della giustizia infatti – e dire «giustizia» può significare voler dire Dio (scrive in “1912+1”) – è uno dei cardini dell’impegno interpretativo dello scrittore. Luoghi simbolici della realtà cui la riflessione si riferisce sono l’indagine, l’istruttoria e il processo. Una tematica che ha una grande storia ininterrotta nella cultura europea moderna dall’Illuminismo al Romanticismo: Voltaire, Pietro Verri, Manzoni.

In rapporto alla materia affrontata nella sua ricostruzione degli eventi che portarono all’arresto, alla condanna come untori e alla crudele esecuzione di alcuni innocenti nella Milano di metà Seicento, la posizione di Manzoni si articola intorno al problema della giustizia: «La passione è pur troppo abile e coraggiosa a trovar nuove strade, per iscansar quella del diritto, quand’è lunga e incerta». Il problema posto dal Manzoni e fatto proprio da Sciascia è un problema di sempre, perché è di sempre la tendenza ad iscansar il diritto.

Lo studio della presenza profonda della funzione colonna infame importerebbe una disamina di tutta l’opera di Sciascia. La sua attenzione alla Storia della colonna infame è antica ed accompagna tutta la sua attività di scrittura. La diffidenza nei confronti dell’amministrazione della giustizia in tutti i suoi livelli e in tutte le sue istanze si riscontra sino a “Una storia semplice”, sintetica summa della sua tematica.

Il romanzo più ampiamente dipendente dalla “funzione colonna infame” è “Il consiglio d’Egitto”, del 1963. La ricorrente riflessione sulla storia e la verità e l’«impostura» è la ragione strutturante che ne lega l’insieme dei temi e dei motivi. La presenza manzoniana, in quanto critica e giudizio morale sulla vita e la storia, si coglie in filigrana negli schemi del ragionamento e nelle scelte linguistiche del discorso sciasciano, certo più radicale e laicamente amaro, anche quando torna direttamente all’oggetto Sicilia: «“In effetti, disse l’avvocato Di Blasi, ogni società genera il tipo d’impostura che, per così dire, le si addice. E la nostra società, che è di per sé impostura, impostura giuridica, letteraria, umana… Umana, sì: addirittura dell’esistenza, direi… La nostra società non ha fatto che produrre, naturalmente, ovviamente, l’impostura contraria…” […].

In realtà, se in Sicilia la cultura non fosse, più o meno coscientemente, impostura; se non fosse strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione e falsificazione della realtà, della storia… Ebbene, io vi dico che l’avventura dell’abate Vella sarebbe stata impossibile».

Per quanto riguarda il concreto degli eventi narrati, non può non essere riferito al contesto del discorso manzoniano l’accenno alla pratica della promessa di impunità nei confronti di arrestati cui si vogliono strappare informazioni e nomi e, soprattutto, le drammatiche e indignate pagine dedicate all’arresto, alla tortura e al supplizio del giacobino Di Blasi. Riscontriamo lo stesso tipo di attualizzazione – il nazismo, la repressione francese in Algeria -, che poi lo scrittore praticherà nell’introduzione alla Storia di cui si diceva all’inizio.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA