Notizie Locali


SEZIONI
Catania 23°

Archivio

«Nonno Leonardo, occhi bassi e balbettava in pubblico non riusciva a parlare»

Di Samantha Viva |

Cento anni dalla nascita di Leonardo Sciascia, questo impone una riflessione sulla figura del grande scrittore e sul suo lascito, oggi, in un mondo così diverso dagli anni in cui “il maestro di Racalmuto” svelava trame di potere e indicava una rotta da seguire, nel nome della verità. E chi meglio di suo nipote, Fabrizio Catalano, impegnato da anni in ambito culturale, come autore e regista, e in questa occasione anche coordinatore delle manifestazioni per il centenario, può colmare il dubbio su cosa ci avrebbe detto Sciascia su questi tempi sospesi?

Innanzitutto, in che modo vorrebbe che questo smemorato paese si ricordasse della figura di suo nonno?

Vorrei che si ricordasse come di qualcuno che invita a diffidare ragionevolmente, però diffidare sempre. Mio nonno l’ho sentito teorizzare in diretta che il diritto dell’intellettuale è opporsi al potere, non ci si può aspettare che tutti lo facciano, ma si può imparare a diffidare. Per esempio credere che la terra sia piatta e che il virus sia nato in laboratorio, sono due modi di diffidare diversi. Oggi si getta in un unico calderone tutto, perché è una società senza anticorpi. Un esempio di come la cultura sia stata screditata? All’annuncio della morte di mio nonno, il TG1 ha dedicato 18 minuti in apertura e per Moravia, qualche anno dopo, l’intervallo di una partita di calcio; era già iniziato il lavoro ai fianchi di questo paese contro la cultura. Che poi Cultura altro non è che un insieme di sensibilità, consapevolezza, memoria ed etica”. La quarantena ci ha insegnato che la posizione oggettivamente isolata di Racalmuto e della Fondazione non può restare tale, bisogna potenziare l’occupazione del territorio telematico, c’è bisogno che gli studiosi vengano a visitarla, a conoscere ciò che conserva, se penso all’incontro di novembre con gli studenti, seguito in diretta anche da chi non sarebbe mai venuto, ne vedo l’opportunità; organizzeremo in streaming convegni, di cui uno importante già previsto per l’8 alle 19, ma anche una serie di rubriche, secondo un format per cui in tre minuti alcuni personaggi racconteranno il loro rapporto con Sciascia. Ho anche in mente dei filmati da realizzare.

Lei ha anche realizzato un volume, “Il tenace concetto”, in uscita proprio l‘8 gennaio, insieme a due sociologi, Alfonso Amendola ed Ercole Giap Parini. Come è nata l’idea del libro?

L’idea nasce da una frequentazione di anni con l’editore, Simone Luciani, a Roma, proprio perché aveva creato questa piccola casa editrice col nome del protagonista del Contesto, Rogas. Luciani per anni ha avuto una libreria al Pigneto, e ci frequentavamo; poi un anno e mezzo fa, conversando su quello che avrei potuto raccontare di mio nonno, ma ammettendo di non riuscire a scrivere di lui, senza sentirmi un profittatore, abbiamo cercato come farlo. Ci è venuto in mente il libro intervista che mio nonno fece con Domenico Porzio, “Fuoco all’anima”, e abbiamo aggiunto un dialogo con due sociologi, perché mi pare che in questi anni la comunicazione su Sciascia risenta di due problemi, l’insistente ritornare alla polemica sui professionisti dell’antimafia, che all’interno di tutto ciò che è stato Sciascia ritengo sia un fatto episodico, ampiamente chiarito, e il ridurlo, soprattutto nei salotti paludati, ad un “classico” letterario. Questa interpretazione di Sciascia mi sembra figlia del nostro tempo, estremizzata.

Questo libro dunque è frutto di una collaborazione e di un’amicizia, come succedeva un tempo. Mi viene in mente la bellissima fotografia, scattata da Giuseppe Leone nell’82, che ritrae suo nonno, Consolo e Bufalino alla Noce. Cosa le resta di quegli incontri, a cui spesso, da piccolo, ha assistito?

Mi resta una sensazione di normalità e genialità insieme e se guardi le foto di mio nonno o di Bufalino, capisci subito che non c’è la dimensione di oggi, si mostrano per quello che erano, con la biancheria appesa dietro, che entra nell’inquadratura. Era però una normalità nella quale capivi che succedeva qualcosa, quando parlavano anzi quando parlava – spesso – solo Bufalino, che parlava così come scriveva. E il ricordo è quello di un’umanità incline a remare dalla stessa parte, quella in cui Nicuzzo, che litigava con suo fratello, saliva da mio nonno per chiedere chi avesse ragione. L’artista e l’uomo coincidevano. Erano gli ultimi epigoni di una generazione normale.

Leonardo Sciascia anche aveva un grande amore anche verso il teatro e il cinema, lei stesso ha portato in scena Il Giorno della Civetta a teatro, però ritiene siano poco adatte alla rivisitazione e alla rappresentazione.

Credo che ci sia grande differenza tra cinema e teatro, con Gianni Garko, per più di un anno abbiamo armeggiato intorno al “Cavaliere e la morte”, ma poi abbiamo rinunciato perché mi rendo conto che non sarei mai all’altezza di quell’intimità. I film sentono il passare del tempo. Per me il più bello è “Una vita venduta” di Aldo Florio, del 1976, che è basato sull’Antimonio, che essendo cinema di genere risulta pulito. Rivedendo “Porte Aperte” dopo anni non è un cattivo film, ma neanche buono, ma mentre nel romanzo c’è enorme divagazione, il film per forza di cose diventa una descrizione della Palermo che prende sopravvento su tutto. In sostanza da buoni libri non nascono buoni film.

Amendola, nel libro, cita alcuni dei libri come l’Affaire Moro, Todo Modo, il Contesto, quelli che rappresentano la corda civile. Ma c’è un universo in Sciascia che ci restituisce mille altri mondi; quali sono quelli a lei più cari e qual è il libro che preferisce di suo nonno?

Il mio libro preferito è “Il cavaliere e la morte”, sia perché ero in vacanza con lui in Friuli quando lo scriveva, sia perché la malinconia crepuscolare mi appartiene, ma anche “Nero su Nero”. Io non so che senso diamo all’espressione corda civile, per me il miglior simbolismo che si possa immaginare conduce alla corda civile. Lo scrittore, come diceva mio nonno, non deve programmare il suo impegno, ma alla fine facendo quello che vuole si scopre più impegnato di chi aveva programmato di esserlo.

Lei dichiara spesso che in questo paese mancano intellettuali come suo nonno, che oltretutto non amando in alcun modo le etichette non voleva essere definito “intellettuale”; ma quale contributo potrebbero dare oggi, uomini del calibro di suo nonno, ad un Paese che ha così poco in conto la cultura?

Nessuno, credo. Magari sarebbe stato preso per complottista! Immagino un ipotetico dibattito televisivo tra la Meloni e Pasolini, che si sarebbe chiuso in due minuti con una qualche allusione all’omosessualità, e cosa ancora più triste, il pubblico avrebbe riso. A quel punto cosa ci sarebbe stato da dire? Non avrebbero parlato più, quegli uomini di un tempo. Quando vedi trasmissioni in cui le battute non durano più di 20 secondi, come avrebbe potuto mio nonno, che andava in tv tenendo gli occhi bassi perché gli davano fastidio le luci, articolare un ragionamento, con questa velocità di parola?

Allora forse gli intellettuali non li meritiamo più in questa società?

Nessuno si attribuisce il genio di Sciascia, ma credo che Leonardo Sciascia si diventi. Melo Freni mi raccontò che mio nonno non riusciva a parlare in pubblico perché balbettava, ma ad un certo punto, le cose cambiano; vieni assorbito dal personaggio. Non lo vinci da solo quello che sei o non sei, la società ti attribuisce un personaggio, e tu ti cali dentro. Un mio amico e collega mi disse «nel fare qualcosa noi lasciamo dei segnali che forse un giorno qualcuno capirà». Dobbiamo esserci e non deve mancare per noi e soprattutto non deve mancarci il coraggio di uscire dal seminario.

Come si vive il fare cultura se si ha un nome alle spalle così importante?

Credo che non bisogna fare assolutamente niente, io ho deciso di fare cinema a 14 anni e poi ne ho parlato con mio nonno, poco prima che morisse. L’occasione di dedicarmi alle cose di mio nonno è stata casuale. Mi piace come mi piace altro, il simbolismo che ho studiato dimostra che poi ognuno fa la sua strada e non necessariamente ricalca le passioni di chi lo ha preceduto; il fatto di essere cresciuto in quel contesto lo vedo come un privilegio, e poi accetto della vita, che a qualcuno fai simpatia per questo e a qualcuno fai antipatia per questo. Fai antipatia perché Sciascia dopo la morte è uno dei pochi per cui ad un certo punto si è scatenata la ricerca dell’erede, e molte persone in vita vorrebbero esserlo, e il fatto che ci sia un vero erede li disturba molto.

E della sua Sicilia oggi cosa direbbe Sciascia e cosa dice lei?

Intanto mi chiedo cosa sarebbe stata la Sicilia con Sciascia; ma forse ammetterebbe che è una terra irredimibile. Io invece ho dovuto scegliere tra il vivere con o senza la Sicilia e ho risolto il dilemma con il “senza”. Mi piace rivedere i miei amici, però li trovo sempre più diversi da me, e lo dico con affetto. I viaggi in Bolivia, sopralluoghi per un film, mi hanno fatto capire che bisogna andare verso Sud, verso la parte latina del mondo. Lì c’è ancora la speranza verso il futuro, magari non ci saranno gli stessi diritti, la stessa sanità, lo stesso modo di vivere, ma è come stare negli anni Cinquanta in Italia, hai la speranza di poter conquistare qualcosa, che qui ormai dai per scontato.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


Articoli correlati