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Se il paesaggio fosse in trasformazione e la costa jonica piena di spiaggette nere

Di Vera Greco |

Chissà perché, quando parliamo di paesaggio, siamo convinti inconsapevolmente che sia fermo, immutabile, quasi congelato in una visione che ognuno di noi elabora a seconda del proprio io e dei propri ricordi. Parlare quindi di trasformazione o di “progetto di paesaggio” può provocare reazioni di rigetto o comunque di diffidenza; mentre invece il paesaggio è sempre in movimento, si trasforma, da solo o, come molto più frequentemente, con l’intervento antropico. Che, volente o nolente interviene nel suo processo: comprendere questo è fondamentale per capire quali sono i suoi meccanismi – geologici, morfologici, climatici, pedologici, sociali, storici, culturali, e tutti i vari possibili aspetti che lo generano – per potervisi inserire, ed operare non “contro” di esso ma “con” esso.

Di sicuro la regola fondamentale per non sbagliare è la sostenibilità, parola usata ed anche abusata a sproposito, ma che con un grammo di onestà mentale sappiamo bene cosa indica e cosa prevede. La sostenibilità significa modificarlo con azioni che ne mantengano i caratteri costitutivi, non ne stravolgano gli equilibri, e si pongano in quel range in cui la resilienza dello stesso garantisce trasformazioni che non lo impoveriscono, non lo inquinino, non ne stravolgano le linee fondamentali e anzi, lo valorizzino e ne promuovano le caratteristiche identitarie, ponendolo come felice sintesi di natura e cultura.

Se c’è una regola che va rispettata e che garantisce la bontà delle nostre azioni è quella della “circolarità”: mutuata dalla natura, in cui tutti i processi sono circolari, cioè non producono scarti o rifiuti che non siano essi stessi parte di quell’immenso e continuo processo produttivo che si chiama vita. Perciò, facendo riferimento alla circolarità e alla sostenibilità, possiamo esser sicuri di non sbagliare e liberarci anche da stereotipi e condizionamenti che imbrigliano la nostra voglia di fare, a volte anche proiettata così in avanti, da spaventare i più conservatori, quelli che hanno visto scempi e distruzioni per mano antropica, e proprio per questo hanno acquisito un atteggiamento che dire prudente è un eufemismo, ma che nella sostanza è di rigida immobilità su qualsiasi trasformazione o azione che modifichi quello che nell’immaginario collettivo è il paesaggio. Fermo, immobile e stantio.

Possiamo quindi immaginare di intervenire su quello che è un “paesaggio” per antonomasia, come ad esempio un litorale, una costa, ragionando sempre in termini di circolarità e sostenibilità, per prefigurare azioni che possano contemporaneamente risolvere un problema, rispettare il luogo, risparmiare energie, reimmettere prodotti e processi nella circolarità che la natura ci ha insegnato e al contempo promuovere una valorizzazione di quel paesaggio.

Prendiamo ad esempio il problema che si verifica con costanza, dal momento che siamo saldamente abbarbicati alla terra del vulcano, della cenere dell’Etna. Un prodotto naturale, peraltro ricchissimo di elementi fertilizzanti, che presenta proprietà qualitative adatte a molteplici usi, e che, invece, viene raccolto con stizza e malavoglia in sacchi di plastica per poi essere “smaltito” in discarica. Ora a parte gli svariati utilizzi sui quali non ci soffermeremo – peraltro già l’Università se ne sta occupando – puntiamo invece ad un’idea veloce e immediata che non comporta trasformazioni, ma solo semplici operazioni. Già la parola “sabbia” rimanda alla spiaggia, e, di spiagge di sabbia lavica qualche esempio ce l’abbiamo, qui in Sicilia ma anche altrove.

Inoltrandoci nella comprensione dei processi che sovrintendono alla formazione della spiaggia appunto, la cui durata è infinitamente maggiore di quella della vita umana, possiamo ipotizzare di “accelerarne“ i tempi, intervenendo come in una sequenza velocissima. Tutta la costa ionica che va da Riposto alla Scogliera di Catania è caratterizzata da una geomorfolgia lavica di varia natura, corrispondente alle varie colate che nei millenni hanno attraversato il territorio e si sono arrestate nell’acqua, ai processi di disgregazione della roccia che in base all’azione erosiva e lisciante degli elementi si sono trasformati in scogli, ciottoli di varie grandezze e misure, ghiaia, sabbia. Sabbia, appunto. Il prodotto finale della disgregazione minerale, delle conchiglie e dei materiali organici ed inorganici, dell’erosione, del trasporto e sedimentazione, che può durare anche millenni è la sabbia, il cui aspetto e colore finale sono appunto determinati dalle caratteristiche costitutive di partenza.

Per cui le spiagge nere sono quelle formate dalla degradazione dei materiali lavici, così come quelle bianche o dei vari colori delle texture dorate, dalle arenarie, dai quarzi, dai materiali calcarei, dai gusci organici degli animali che si nutrono di coralli ecc.

Adesso, ipotizzare che la sabbia/cenere dell’Etna, raccolta e adeguatamente ripulita dalle impurità, stoccata in siti logisticamente disposti nel territorio, possa venire utilizzata lungo la costa jonica, secondo un progetto di architettura del paesaggio che ovviamente si ispiri alla naturale conformazione geomorfologica, seguendone le linee e non forzando lo skyline, ma creando coì piccole rive e spiaggette in sabbia lavica, risulterebbe così poco perseguibile? Così sconvolgente? O invece attraente, apportando un cambiamento migliorativo sia dei luoghi, per la loro accessibilità, che della sostenibilità, invece di deturpare le strade con i sacchi di plastica prima e poi aumentare l’ingolfamento delle discariche, e avviando anche un indotto economico che ne deriverebbe? Innanzitutto con i risparmi conseguiti in ragione del fatto di non pagare le esose tariffe della discarica, poi in termini ambientali il cui prezzo è difficilmente quantificabile, ma è altrettanto facilmente intuibile, e infine in termini economici nudi e crudi: un metro quadro di spiaggia vale circa 2000 euro,( stima effettuata da società che si occupano specificatamente di questo) per i servizi e l’economia che riesce a generare.

Nel rendering, ecco come si presenterebbe un tratto di costa tra Acicastello ed Aci Trezza, ma possiamo anche immaginare queste piccole spiaggette come perle nere che punteggiano la costa lavica, offrendo occasioni di fruizione e di valorizzazione compatibili con la sostenibilità e la circolarità dei processi naturali.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA