L'ACCIAIERIA
Ilva, ultimo miglio: due fondi Usa per il rilancio. Ma su investimenti e lavoro la partita è tutta da giocare
Bedrock e Flacks presentano offerte simboliche e piani in contrasto: 5.000 addetti nel primo caso, 8.500 nel secondo (per soli due anni). Decarbonizzazione, cassa integrazione, ruolo dello Stato e i conti di un’operazione da almeno 5 miliardi restano i nodi decisivi
Una sirena in lontananza, il riverbero dei nastri trasportatori fermi, l’odore di ferro e salsedine che entra dalle bocche del porto di Taranto. Qui, dove per decenni l’acciaio è stato sinonimo di lavoro e di malattia, il destino dell’ex Ilva si decide oggi su due cifre che non potrebbero essere più diverse: 1 euro, il prezzo simbolico offerto per rilevare gli impianti, e 5 miliardi, la dote minima per riportarli a produrre in modo competitivo e pulito. In mezzo, i nomi di due fondi statunitensi, Bedrock Industries e Flacks Group, e una domanda che rimbalza tra fabbrica e Palazzo: chi metterà i soldi veri, chi terrà davvero l’occupazione, e per quanto tempo?
Due offerte per tutti gli asset, gara formalmente ancora aperta
I Commissari straordinari di Acciaierie d’Italia (AdI) e Ilva in amministrazione straordinaria confermano l’arrivo, entro la mezzanotte di 11 dicembre 2025, di due proposte per l’acquisto dell’intero perimetro industriale: una da Bedrock Industries, l’altra da Flacks Group. La procedura resta tecnicamente “aperta” a eventuali offerte migliorative, ma allo stato i protagonisti sono questi due operatori Usa, gli unici interessati al pacchetto completo dopo i ritiri dei precedenti “favoriti” stranieri.
Nei mesi scorsi il dossier aveva contato fino a dieci manifestazioni di interesse, molte sulle singole asset class (porti, energie, lavorazioni). Oggi la contesa si riduce a due candidati, con il governo che punta a chiudere il passaggio di mano evitando uno smembramento e salvaguardando la continuità produttiva.
Che cosa prevedono le offerte
- L’offerta di Flacks Group: prezzo simbolico di 1 euro, piano per riportare la produzione a 4 milioni di tonnellate/anno, garanzia occupazionale per 8.500 lavoratori ma esplicitamente limitata a un biennio; richiesta di mantenere lo Stato al 40% con opzione d’acquisto futura tra 500 milioni e 1 miliardo. Investimenti annunciati: circa 5 miliardi complessivi tra ripartenza, risanamento ambientale e trasformazione degli impianti. Il fondatore Michael Flacks rivendica di avere già “soft commitment” di banche italiane e statunitensi.
- La proposta di Bedrock Industries: confermata la presentazione in extremis e, secondo fonti di mercato e ricostruzioni di stampa, impegno minimo per 5.000 occupati. Anche in questo caso il prezzo di ingresso è simbolico e il perimetro è l’intero gruppo, con focus sul rilancio industriale e sul percorso di decarbonizzazione. Dettagli economico-finanziari e durata delle garanzie, tuttavia, restano meno trasparenti nella comunicazione pubblica rispetto alla concorrente.
Il contrasto è netto: 8.500 addetti garantiti per due anni da una parte, 5.000 dall’altra senza un orizzonte temporale chiaramente comunicato. La domanda per i lavoratori è esistenziale: quale base occupazionale sarà considerata “sostenibile” dopo il biennio? E quale sarà la scala degli esuberi impliciti se la ripartenza non centrerà gli obiettivi?
Occupazione: la realtà dei numeri
Oggi il gruppo conta circa 10.000 dipendenti diretti, ma oltre 4.450 sono in cassa integrazione e una parte significativa è concentrata a Taranto. Nel 2025 si sono succedute richieste e rimodulazioni della Cigs, con picchi di oltre 3.800 cassintegrati nel sito jonico e una gestione a rotazione per gli altri plant di Genova e Novi Ligure. Il quadro fotografa uno stabilimento che viaggia con un solo altoforno e con frequenti fermi per manutenzioni e guasti.
La conseguenza è che qualsiasi promessa occupazionale deve misurarsi con la produzione effettiva: il target di 4 milioni di tonnellate annue evoca un ritorno alla normalità relativa, ma serve un piano credibile di riattivazione e sicurezza degli impianti, oltre a investimenti che evitino l’ennesima altalena di cassa integrazione e ripartenze a singhiozzo. Il Mimit ha ribadito in più occasioni che l’obiettivo è gestire la transizione “senza impatti sociali”, assicurando continuità produttiva e interventi di manutenzione straordinaria.
Decarbonizzazione: il costo vero della svolta e perché quei 5 miliardi non sono un tetto
La cifra che ricorre nei documenti e nelle interviste è 5 miliardi di euro. Ma il passaggio da un ciclo integrale a altoforni a un sistema ibrido o full elettrico con forni EAF e pre-riduzione DRI richiede una catena di scelte industriali, autorizzative e logistiche che spesso sfora le stime iniziali. Sulla carta, i commissari e il governo puntano a consegnare al futuro acquirente impianti “manutenuti” con almeno 4 milioni di capacità e una cornice autorizzativa coerente con l’AIA e il nuovo piano di decarbonizzazione. In parallelo è stata annunciata un’azione risarcitoria da 5 miliardi contro ArcelorMittal, accusata di aver lasciato gli impianti in grave degrado. Risorse eventuali da contenziosi e fondi pubblici potrebbero co-finanziare la transizione, ma non sostituire i capitali privati.
Nelle interlocuzioni istituzionali si è fatto esplicito anche il tema della partecipazione pubblica nel capitale del nuovo operatore: il ministro Adolfo Urso ha definito “realistica” la permanenza dello Stato con una quota del 40%, in modo da accompagnare investimenti e controllo dei cronoprogrammi; l’ipotesi coincide con lo schema proposto da Flacks e resta valutabile pure in caso di aggiudicazione a Bedrock.
Chi sono i due fondi
- Bedrock Industries è un veicolo d’investimento con una storia nel settore dei metalli, legato alla ristrutturazione della canadese Stelco e attivo in operazioni complesse di rilancio industriale. Il profilo è quello di chi entra su asset in crisi, contenendo costi e ricostruendo la filiera. Nelle cronache internazionali, il suo fondatore è spesso associato a operazioni ad alto coefficiente di rischio e di execution.
- Flacks Group, guidato da Michael Flacks, ha un pedigree da “distressed investor” multisettoriale. Il suo numero chiave qui è 8.500 addetti per due anni e la richiesta di una partnership pubblico-privata per far partire la trasformazione green degli impianti. Tono e strategia comunicativa sono più aggressivi e dettagliati nelle promesse, incluso il perimetro occupazionale e i 5 miliardi di investimento.
Il ruolo dello Stato
La disponibilità del governo a entrare o restare azionista, se “richiesto dai partecipanti alla gara”, è un punto chiave: non solo perché riduce il costo del capitale per l’acquirente, ma anche perché crea un meccanismo di controllo sugli adempimenti ambientali e sui tempi di cantiere. Nei fatti, l’eventuale 40% pubblico potrebbe “stabilizzare” l’asset nei primi 24 mesi, l’orizzonte più fragile per occupazione e cassa. Il governo ha anche dato mandato ai commissari di predisporre piani di manutenzione straordinaria per consegnare impianti in condizioni di funzionamento e sicurezza “accettabili” entro marzo.
Resta la compatibilità con le regole europee sugli aiuti di Stato: qualsiasi supporto pubblico deve essere dentro la cornice del bando e coerente con il principio dell’investitore privato in economia di mercato, pena il rischio di infrazioni. Su questo fronte, prudenza e chiarezza contrattuale sono la precondizione per evitare contenziosi a valle dell’aggiudicazione.
La voce di fabbrica
Le organizzazioni sindacali guardano con preoccupazione agli scenari post-gara. La priorità è evitare cessioni “a pezzi” dopo l’acquisizione e ancorare la ripartenza a un piano integrato che tenga insieme Taranto, Genova e Novi Ligure, con garanzie su indotto e clausole sociali. La richiesta è che il dossier passi “direttamente” a Palazzo Chigi per un negoziato politico con gli acquirenti che non si limiti ai numeri di breve periodo.
Intanto, la realtà quotidiana è una Cigs strutturale e fluctuant: a settembre la richiesta è salita a 4.450 unità, di cui quasi 3.800 solo a Taranto. Il messaggio che arriva dai lavoratori è semplice e duro: prima di discutere di green steel, servono garanzie sulla sicurezza degli impianti e un cronoprogramma credibile per ridurre la cassa.
Quanto vale l’Ilva oggi: perché 1 euro può non essere una provocazione
Il prezzo simbolico di 1 euro non è un paradosso contabile: è il modo in cui si “prezza” un asset gravato da passività operative, rischi ambientali, cause pendenti e da un fabbisogno capex straordinario. Il valore vero sta nel pacchetto di investimenti che l’acquirente si impegna a fare e nella condivisione del rischio con lo Stato. Ciò non toglie che un “prezzo zero” accenda inevitabilmente riflettori sulla distribuzione degli oneri futuri: chi paga se i conti non tornano? E chi decide le priorità tra salute, ambiente, produzione?