la manovra
Pensioni, la stretta che cambia il gioco: addio a Quota 103 e alla vecchia Opzione donna. Tfr “automatico” nei fondi dal 2026
Un cantiere previdenziale che ribalta abitudini e scelte: aumenti “a rate” dell’età pensionabile, silenzio-assenso sul Tfr, tagli alle risorse per usuranti e precoci. Ecco cosa significa davvero per lavoratori e imprese
La manovra 2026 non è un maquillage: riscrive i tempi di uscita, rimette mano agli incentivi e spinge — con un deciso “nudge” — verso la previdenza complementare. Mentre si chiude l’era di Quota 103 e della vecchia Opzione donna, l’Ape sociale viene confermata ma con una dieta di risorse; l’età di vecchiaia salirà non a scatti, ma “a rate”: +1 mese nel 2027, +3 mesi complessivi dal 2028. E, soprattutto, il Tfr dei neoassunti prenderà la strada dei fondi pensione in assenza di un “no” esplicito. Un cambio culturale, prima ancora che normativo.
Le quattro mosse chiave in sintesi
Fine degli schemi sperimentali: addio a Quota 103 e alla vecchia Opzione donna; stop anche al “cumulo” tra prestazioni della previdenza integrativa e assegno per anticipare la vecchiaia.
Conferma dell’Ape sociale nel 2026, ma con tagli programmati per usuranti e precoci nel medio periodo.
Adeguamento graduale all’aspettativa di vita: 67 anni + 1 mese nel 2027, 67 anni + 3 mesi dal 2028; corrispondente ritocco anche ai requisiti per l’anticipata “Fornero”.
Silenzio-assenso sul Tfr per i neoassunti privati dal 1° luglio 2026, con 60 giorni per scegliere diversamente; piccoli aggiustamenti fiscali e di prodotto sui fondi (deducibilità a 5.300 euro; nuove modalità di erogazione e tassazione).
Quota 103 e Opzione donna: il tramonto definitivo
La manovra manda “in soffitta” Quota 103 (uscita con 62 anni e 41 anni di contributi) e non proroga la vecchia Opzione donna. Si chiude così la stagione dei correttivi annuali che avevano affiancato la riforma Fornero. Per il 2026, l’uscita ordinaria resta la vecchiaia a 67 anni (fino al 31 dicembre 2026) e l’anticipata “Fornero” a 42 anni e 10 mesi (uomini) e 41 anni e 10 mesi (donne), con le consuete finestre. Ma da lì in avanti, il quadro cambia per effetto dell’adeguamento alla speranza di vita.
Una stretta ulteriore riguarda il canale — introdotto nel 2025 — che consentiva, per i lavoratori “interamente contributivi”, di “completare” la soglia per la vecchiaia anticipata a 64 anni utilizzando anche la rendita della previdenza complementare. La norma viene cancellata: niente più cumulo tra assegno pubblico e prestazioni dei fondi per anticipare l’uscita.
Ape sociale: conferma nel 2026 ma con meno benzina nel serbatoio
L’Ape sociale resiste per il 2026, mantenendo l’uscita per i profili protetti (disoccupati, caregiver, invalidi civili e impiegati in mansioni gravose/usuranti) a 63 anni e 5 mesi. La tenuta, però, ha un prezzo: scattano tagli programmati al fondo per i precoci e a quello per gli usuranti, segnale di una futura selettività negli accessi. La riduzione delle risorse è scalettata così: per i precoci, -90 milioni nel 2032, -140 milioni nel 2033, -190 milioni annui dal 2034; per gli usuranti, -40 milioni l’anno dal 2033 (da 233 a 194 milioni).
È una scelta politica e contabile insieme: preservare nel breve la flessibilità per i lavori più duri, ma ridurre l’impegno finanziario nel medio-lungo termine, quando la platea potenziale potrebbe ampliarsi per effetto delle carriere discontinue e dell’invecchiamento della forza lavoro.
Età pensionabile: l’aumento “a rate” per attenuare l’impatto
Il ritorno all’adeguamento alla speranza di vita non arriva con un colpo solo. La manovra opta per una rampa: +1 mese dal 1° gennaio 2027, +2 mesi aggiuntivi dal 1° gennaio 2028, con arrivo a 67 anni e 3 mesi per la vecchiaia e 43 anni e 1 mese per l’anticipata maschile (un anno in meno per le donne). La scelta “spalma-shock” serve a diluire l’effetto di un Paese che torna a vivere più a lungo dopo gli anni della pandemia.
Il quadro fotografa una sostenibilità che torna al centro: l’Istat ha certificato nel 2024 un rialzo della speranza di vita a 65 anni, e la correzione automatica prevista per il 2027 sarebbe stata di tre mesi: il governo sceglie di attenuare il salto distribuendolo sull’arco di due anni.
Tfr, la “spinta gentile” alla previdenza complementare
Il capitolo più di rottura è quello del Tfr: per i lavoratori del settore privato assunti dal 1° luglio 2026, scatta l’adesione automatica alla previdenza complementare salvo diversa scelta comunicata entro 60 giorni. Sono escluse le collaborazioni di lavoro domestico. È una rivoluzione nella pratica, più che nella teoria: il meccanismo del silenzio-assenso esisteva, ma l’inerzia favoriva la permanenza del Tfr “in azienda”. Ora l’ago della bilancia pende verso i fondi, con una finestra decisionale breve e informata.
La platea riguarda tutti i neoassunti privati (con l’eccezione citata). L’azienda dovrà informare il lavoratore e attivare i flussi; resta la libertà di scegliere un fondo diverso o di mantenere il Tfr nel regime ordinario, ma serve una decisione esplicita entro 60 giorni.
Si amplia, inoltre, gradualmente la platea di imprese obbligate al conferimento del Tfr al Fondo Tesoreria Inps in base alla dimensione aziendale, secondo tappe previste nel biennio 2026-2027 e oltre.
Sul fronte fiscale, dal periodo d’imposta 2026 il tetto di deducibilità dei contributi ai fondi sale a 5.300 euro; vengono introdotte nuove modalità di erogazione del montante (tra cui rendite a durata definita e rate), ma con tassazione al 20% sulle erogazioni frazionate, rispetto al 15% standard.
Perché questa scelta? Il governo adotta una logica “opt-out”: storicamente, l’inerzia è il nemico dell’adesione previdenziale. Rendere automatica l’iscrizione, lasciando la possibilità di rinunciare, aumenta — nelle esperienze internazionali — la partecipazione. Un obiettivo coerente con i numeri: a fine marzo 2025, le posizioni attive nella previdenza complementare erano 11,3 milioni (iscritti 10,1 milioni), per 243 miliardi di patrimonio a fine 2024 (circa 10,8% del Pil). Ma il tasso di partecipazione rispetto alle forze lavoro resta modesto: intorno al 37% tra i dipendenti e meno del 27% se si contano solo i versanti. Il silenzio-assenso prova a colmare il gap.
Chi ci guadagna e chi rischia di perdere
I lavoratori con carriere lunghe e continue vedranno spostarsi in avanti di 1-3 mesi la soglia di uscita, un impatto contenuto ma reale nella pianificazione. I più vicini al traguardo dovranno monitorare con attenzione decorrenze e finestre.
I profili gravosi e usuranti beneficiano della conferma dell’Ape sociale nel 2026, ma i tagli prospettici ai fondi suggeriscono future restrizioni. La partita sarà negli atti attuativi e nei futuri monitoraggi.
Le lavoratrici che contavano sulla vecchia Opzione donna perdono un canale “agevolato”: restano gli strumenti ordinari e le uscite per profili fragili.
I neoassunti nel privato potrebbero beneficiare, nel tempo, di un accumulo previdenziale più ricco grazie al conferimento automatico del Tfr e ai contributi datoriali laddove previsti dai contratti collettivi, oltre al vantaggio fiscale sulla deducibilità. Ma attenzione alle scelte di comparto e ai costi: il “pilota automatico” non sostituisce l’educazione finanziaria.
Imprese: oneri procedurali e cash flow da ripensare
Per le aziende, la novità sul Tfr implica procedure più strutturate di informativa e un possibile impatto sul capitale circolante. L’uscita del Tfr dal perimetro aziendale verso fondi o Tesoreria Inps riduce una fonte storica — seppur “cara” — di autofinanziamento. In parallelo, l’estensione progressiva degli obblighi di conferimento al Fondo Tesoreria per chi supera determinate soglie occupazionali richiederà pianificazione finanziaria e dialogo con i consulenti del lavoro.
Perché il governo spinge sui fondi
L’Italia ha una spesa pensionistica elevata e una demografia non favorevole. In parallelo, l’adesione alla previdenza complementare — pur in crescita — resta inferiore agli standard di economie comparabili. A fine 2024 il patrimonio dei fondi ha toccato 243 miliardi (10,8% del Pil), con 10,1 milioni di iscritti a marzo 2025, ma una quota significativa di iscritti non versanti e divari territoriali e di genere (al Nord oltre il 50% degli iscritti; le donne sono meno di 4 su 10). Spingere il Tfr verso i fondi è un modo per alzare l’asticella del risparmio previdenziale, riducendo il rischio di pensioni future insufficienti, specie per carriere discontinue.