intervista
Il sociologo Carlo Colloca: «L’emigrazione non deve essere irreversibile e la Sicilia interna non la salverà il turismo»
I siciliani all’estero sono una risorsa enorme, ma non per forza perduta. «Adesso basta con la retorica: il turismo bulimico non fa bene alla Sicilia»
La ventunesima regione d’Italia è multidialettale, diffusa, disomogenea in giro per il mondo. Ed è composta, per lo più, da siciliani. L’ultimo report dell’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, è riferito ai dati del 2024. E consegna un numero che fa riflettere: dei 6.412.752 italiani che abitano stabilmente fuori dai confini nazionali, 844.507 (cioè il 13,17 per cento) viene dalla Sicilia. Seguono Lombardia (10,76 per cento) e Veneto (9,57). Per dirla peggio: è come se le intere province di Enna e Messina più un pezzettino di quella di Trapani fossero emigrate. Certo, è un paragone forzato. Non tiene conto, per esempio, degli italiani nati all’estero. Ma serve a spiegare bene il punto. «Si stima che l’emigrazione costi al Sud Italia circa otto miliardi l’anno», spiega Carlo Colloca, docente di Sociologia dell’ambiente e del territorio al dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’università di Catania. Colloca si riferisce alla ricchezza che non viene generata sul territorio del Meridione del Paese. E che continua a mettere mattoni nel muro delle disuguaglianze fra Nord e Sud.
Professore, che differenza c’è tra gli emigrati della seconda metà del Novecento e chi emigra oggi?
«I dati Aire ci confermano che si tratta di una tendenza nazionale. Perché se in questi anni si è costruita un’altra regione fuori dall’Italia è stato per via del contributo di tutto il Paese. Inoltre, sappiamo che la stragrande maggioranza degli emigrati conferma le storiche destinazioni d’interesse: oltre il 50 per cento resta in Europa, il 40 per cento invece va nelle Americhe. Ultimamente, certo, il dato sull’America centro-meridionale è in decremento, mentre si individuano maggiori possibilità negli Stati Uniti, compatibilmente con le politiche sull’immigrazione del presidente Trump, e in Canada. Detto questo, chi partiva dalla Sicilia nella seconda metà del secolo scorso non si lasciava alle spalle una disoccupazione giovanile del 40 per cento e un precariato che ipoteca il futuro degli under 35. Poi c’è la questione dei talenti e dei cosiddetti “cervelli in fuga”, che legittimamente ambiscono alla valorizzazione del proprio potenziale in settori, come quello altamente tecnologico, per cui altri Paesi sono destinazioni sicuramente più attraenti».
I dati parlano di emigrazione familiare. Cos’è?
«Sono nuclei giovani, fra i trenta e i cinquant’anni, che emigrano per garantire prospettive di vita migliori per i figli e le figlie. Sono persone che vedono la cronica carenza di servizi che siamo costretti a vivere in Sicilia come una condizione limitante soprattutto nell’ottica delle future generazioni».
La descrizione anagrafica non coincide tanto con l’immaginario, forzatamente romantico, dell’emigrante con la valigia di cartone.
«Perché quell’immagine non esiste. Spostarsi ha un costo, lo affronta solo chi può permetterselo. Chi resta - al di là di chi lo fa per scelta, per impegno sociale o perché è in grado di generare buone condizioni socio-economiche per sé e per il proprio nucleo familiare - lo fa perché vive una forte condizione di deprivazione. Ci sono ampissime sacche di povertà estrema che non consentono alcuna scelta. E quando parlo di povertà parlo anche di povertà educativa: di accesso ai musei, alle occasioni di formazione culturale, ai libri, all’istruzione intesa come complesso di fattori che vanno al di là della scuola dell’obbligo. Fatte queste premesse, possiamo dire che perdiamo i figli della borghesia, le famiglie in condizioni socioeconomiche medio-alte e i pensionati che si dirigono in Paesi dove la pensione minima che percepiscono è sufficiente a garantire un tenore di vita dignitoso».
Nell’ultima manovra finanziaria regionale sono stati stanziati 54 milioni, spalmati in tre anni, per il cosiddetto “South working”, cioè la possibilità di lavoro agile da qui.
«Io trovo che le misure contro lo spopolamento e l’emigrazione siano vittime di due retoriche apparentemente inossidabili. La prima è che chi ne parla contemporaneamente spinge verso uno sviluppo turistico della Sicilia di un certo tipo, e questo non sempre premia l’economia della conoscenza. Se formi giovani dando loro competenze altissime, devi anche ammettere che queste competenze non sempre e non tutte possano essere riconosciute in una Sicilia trasformata in una Disneyland per turisti. Si punta tutto su risorse estrattive, ma fino a che punto potremo estrarre?».
E il secondo tema retorico qual è?
«Quello che le aree interne saranno salvate dai giovani e dagli stranieri. Intanto perché abbiamo enormi difficoltà a garantire una cittadinanza piena a chi nasce in Italia. E poi perché sottoutilizziamo i giovani che arrivano qui da fuori, incapaci di risolvere il problema dell’equipollenza dei titoli di studio rilasciati al di fuori del mondo occidentale. Il governo nazionale ha varato un Piano strategico per le aree interne che la Cei, la Conferenza episcopale italiana, ha definito una “eutanasia”. Eppure, nonostante i numeri allarmanti che riguardano la Sicilia, non mi pare che ci sia stato un tentativo di invertire la rotta o di intervenire sul governo centrale in questo senso. Le aree interne della Sicilia soffrono di una grave emorragia verso le città più grandi, soprattutto Palermo e Catania, che a loro volta vedono volare via giovani e famiglie. Come possiamo pensare di ripopolare le aree interne se lì mancano i servizi minimi in termini di sanità, istruzione e trasporti? Trasporti intesi come “raggiungibilità” dei posti. In Sicilia c’è un tema di infrastrutture che va affrontato, e non mi riferisco al Ponte. Come faccio a partecipare a una riunione da remoto se nel mio paese d’origine ho difficoltà con la connettività a banda larga? Per molti aspetti, siamo una regione che nel Mediterraneo non teme competizione, per esempio sulla qualità del patrimonio archeologico e culturale. Per molti altri siamo ancora fermi a una società pre-moderna».
Il tema della Sicilia che deve vivere di turismo è un argomento piuttosto trasversale.
«Il nostro è un turismo che vive molto di ricettività extra-alberghiera e che ha spinto molti governi locali a interrogarsi più sulle esigenze delle popolazioni temporanee che su quelle delle popolazioni stanziali. Stiamo trasformando le nostre città a beneficio dei turisti, escludendo i bisogni degli autoctoni. Il San Berillo district di Catania, per esempio, potrebbe trovarsi ai Navigli di Milano. Il turismo bulimico si mangia tutto e respinge i residenti di tutte le fasce di reddito. Anche così la scelta di partire diventa esibizione di una possibilità di consumo, una questione di prestigio».
C’è anche chi rientra, però.
«Sì. Per essere precisi, c’è un fenomeno relativamente nuovo che è quello del pendolarismo. Ma ho la sensazione che a renderlo possibile sia il welfare familiare: vivo tra Catania e Milano perché quando sto qua non ho spese, oppure ho spese molto basse, ed esercito la professione da remoto. Ma non è ancora chiaro che ricadute economiche positive questo avrà sulla Sicilia. Poi il Pnrr ha generato un boom occupazionale innegabile, che però non è riuscito a fermare l’emorragia di 25-34enni che non si fidano di un’opportunità di lavoro stabile nel tempo».
Abbiamo parlato dei problemi, ma quali sono le possibili soluzioni?
«Forse l’emigrazione andrebbe vissuta e raccontata meno come uno strappo irreparabile. Le persone che sono andate via costruiscono una diplomazia culturale e sociale “spontanea”. Si può pensare di riattrarle con investimenti che premino, magari, realtà composte da persone di più nazioni, realtà che diventino generative, che creino nuove filiere di economie sostenibili. Però, certo, ci dobbiamo preparare ad accoglierle, affinché la Sicilia non diventi un’esperienza da “Grand tour”».