La strage di via D'Amelio e quelle "certe cose" indicibili
Si è confusi da inchieste che si aprono e si chiudono, da piste disegnate a tavolino e altre, al contrario ben tracciate, che magicamente però restano impantanate
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Abbiamo bisogno di eroi per ricompattarci e provare - almeno provare - a fare della memoria un’occasione per mettere la sordina, sulle note del Silenzio, al bla bla sguaiato, virale, fine a se stesso. E sempre mutuando il “Galileo” di Bertold Brecht siamo una terra sventurata se abbiamo bisogno almeno di decenni per inseguire una verità vera, forse inarrivabile perché indicibile in nome di una ragion di Stato deviata, malata, viziata.
Oscura con il velo delle omertà e con la coltre dei veleni responsabilità più alte di quelle di un commando mafioso. Ancora ieri per via D’Amelio la richiesta di verità è stata in apparenza unanime: accadrà lo stesso anche il prossimo 2 agosto per la strage di Bologna ed è il medesimo cliché che si ripete ogni anno per Ustica. Inutilmente. Torna alla mente ciò che disse Tommaso Buscetta a un Giovanni Falcone voglioso di andare oltre la Cupola per avvicinarsi al terzo livello: «Caro giudice, certe cose non gliele posso dire perché l’Italia non è ancora pronta per sentirle». Proprio attorno alla strage Borsellino si dipana la matassa di queste «certe cose». Un labirinto in cui si entra da via D’Amelio e lì si resta. Confusi da inchieste che si aprono e si chiudono, da piste disegnate a tavolino e altre, al contrario ben tracciate, che magicamente però restano impantanate. Borsellino è stato ucciso ripetutamente: il 19 luglio 1992 e poi dai troppi silenzi. La prima volta con il tritolo con cui fu imbottita la Fiat 126 parcheggiata davanti al cancello del palazzo in cui abitava la madre del magistrato, luogo sensibile ma incredibilmente lasciato scoperto da chi avrebbe dovuto predisporre un “cordone di sicurezza” attorno all’uomo più a rischio d’Italia, dopo il 23 maggio di quello stesso anno. Per questi pagarono prefetto e questore del tempo, soluzione tanto banale quanto facile.
Adesso, tanti anni dopo, è tutto tremendamente più difficile. I magistrati nisseni che ancora indagano rischiano di vestire panni donchisciotteschi per il sol fatto di dover far parlare i morti. Neanche fosse la smorfia napoletana. Perché, per esempio, è morto l’allora procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, che Borsellino avrebbe voluto arrestare come rivelato di recente dal suo braccio destro, il maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale. È morto Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che consegnò ai pm e all’opinione pubblica un povero disgraziato di borgata di nome Vincenzo Scarantino come uno degli uomini della strage: il punto di partenza del Grande Depistaggio. E da morto ci si ricorda di Giovanni Tinebra, nei cui cassetti si cerca persino l’agenda rossa, pietra angolare dell’affaire Borsellino: adesso, la si cerca adesso a casa di un magistrato scomparso nel 2017 su cui, ovviamente da morto, si addensano le nubi più grigie, quelle che portano alla massoneria, ai Servizi segreti, che in quegli anni in Sicilia vivevano dei dossier, degli intrecci e degli equilibri di Bruno Contrada. Lui è vivo, come sono vivi altri uomini chiave del mistero che avvolge il contesto in cui maturò la strage di via D’Amelio: alcuni bruciati, altri chiacchierati, altri immacolati perché così si vuole. Nel frattempo Borsellino, pur tradito e ucciso tante volte, è vivo nei tanti che fanno dell’etica e del rigore - intanto dell’etica e del rigore - la propria cifra professionale e di certo non sono personaggi in cerca d’autore. Da Brecht a Pirandello.