Riflessione
Le aziende ripensino alle condizioni del lavoro per far restare i giovani
Oltre il mismatch di competenze il vero problema è il divario valoriale, offrire lavoro dignitoso, flessibile e significativo
La narrazione dominante sulla disconnessione tra mondo della formazione (scuola e università) e tessuto produttivo (imprese e territorio) si concentra prevalentemente sul mismatch, ovvero il fallimento nel generare le competenze richieste dal mercato del lavoro. Questa prospettiva rischia di essere riduttiva quando si trattano fenomeni complessi come la fuga dei cervelli e la trappola dei talenti, considerandoli erroneamente cause primarie del mancato sviluppo economico e non invece sintomi segnaletici di un malessere più grande, di tipo sistemico. Il vero mismatch valoriale è quello, cioè l’incapacità di istituzioni ed aziende di offrire contesti di lavoro che rispecchino la nuova cultura, le priorità e le aspettative di dignità economica e personale dei giovani.
Il Mezzogiorno è il terreno più evidente di questo fallimento, come evidenziato pure dall’ultimo rapporto di Svimez. Nonostante la crescita del PIL e la creazione di 100 mila posti di lavoro under 35 nel triennio 2022-24, i giovani continuano a migrare: circa 175.000 hanno lasciato il Sud. Il problema non è più l’assenza di occupazione, ma la mancanza di qualità e dignità del lavoro offerto: lavoro povero e salari troppo bassi.
Per superare la dicotomia fra fuga dei cervelli e trappola dei talenti, la narrazione deve evolvere.
La Fondazione Migrantes, nel suo ultimo rapporto, e Svimez nel documento prima menzionato concordano su un paradigma più appropriato: i giovani devono avere la libertà di scegliere se migrare o restare. Non si deve impedire loro la mobilità, ma ugualmente si deve rendere la permanenza nel territorio di origine una scelta pienamente esercitabile. Quando i territori non riescono a generare sviluppo economico duraturo che garantisca dignità, si nega di fatto questo diritto di restare e la migrazione diventa una necessità.
Occorre dunque definire una nuova mappa dei valori e imparare a decodificare la cultura del lavoro giovanile. La reazione della Gen Z a modelli produttivi obsoleti, ancora di stampo fordista, basati sulla stabilità e sul sacrificio, è la chiave per comprendere la fuga. I giovani di oggi hanno ridefinito il concetto di successo professionale, inserendolo in una cornice di benessere personale e autonomia. Ignorare questi segnali di cambiamento alimenta ancor di più le distanze fra adulti e giovani, fra tessuto produttivo e mondo della formazione, fra Nord e Sud.
In base a recenti indagini, il lavoro per i giovani non è più il fulcro della vita; per gli under 35 occupa solo l’ottavo posto nella scala delle priorità, preceduto da valori morali e relazionali come rispetto, onestà, libertà, amicizia e famiglia. Visto principalmente come una fonte di reddito, il lavoro è uno strumento per affermare la propria indipendenza, ma l’obiettivo primario è massimizzare il tempo libero. Lavorare per vivere e non vivere per lavorare.
Ancora, la ricerca di attività che rispecchino valori e interessi personali porta ad un netto rifiuto di ciò che è ripetitivo e standardizzato. I giovani cercano un’occupazione che offra loro libertà e spazio per l’innovazione e la creatività: il 57% di loro sogna un futuro da imprenditore o da libero professionista.
Infine, la richiesta di flessibilità oraria si colloca al primo posto nella ricerca dell’occupazione ideale. La preferenza dominante non è il full-remote estremo, ma il modello ibrido, che combina lavoro in presenza e da remoto. Questo modello offre il bilanciamento fra il bisogno di autonomia e le necessità di connessione, mentorship e condivisione della cultura aziendale.
Di fronte a tali mutamenti epocali, spesso sottovalutati dagli adulti, il sistema formativo deve adattarsi: scuola e università sono chiamate a promuovere modelli pedagogici e formativi che favoriscano l’indipendenza creativa.
Allo stesso modo, è necessaria una riconfigurazione aziendale e territoriale. Imprese private e istituzioni pubbliche devono trovare nuove soluzioni organizzative per soddisfare pienamente il diritto dei giovani di restare.