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La cucina come linguaggio: Bottura invita l'Italia a riattualizzare la tradizione tra sostenibilità, inclusione e il dibattito sulla 50
“Basta nostalgia”: perché il celebre chef chiede al paese di evolvere: non solo tortellini e sfoglia e si riflette sul senso (e i limiti) delle classifiche globali
All’ingresso di via Stella, a Modena, una signora esce dal ristorante stringendo nella borsa un piccolo pacchetto: “sono caramelle di aceto balsamico”, confida al marito. Poco più in là, una coppia di studenti fotografa — non il piatto — ma una frase dipinta su una parete: “La cultura genera conoscenza, la conoscenza coscienza, e la coscienza responsabilità”. Dentro, lo chef Massimo Bottura spiega con calma perché in Italia dobbiamo “smetterla di voltarsi indietro” e come la cucina, quando è viva, non è un esercizio di nostalgia ma una piattaforma per raccontare il presente: sociale, politico, ambientale. È un’immagine che dice più di mille slogan sul “made in Italy”: i tortellini restano, ma il loro significato cambia perché cambiano le domande che poniamo al cibo.
La cucina come linguaggio, non come museo
Nell’intervista del 29 dicembre 2025 lo chef ribadisce un punto chiave: la cucina è un “linguaggio culturale” — non un repertorio immobile — e come ogni linguaggio assorbe i movimenti della società, dalla crisi climatica alle migrazioni, fino alle disuguaglianze economiche. In altre parole, un piatto non è solo tecnica: è una frase che esprime un’idea di mondo. È in questo quadro che Bottura invita a “superare la nostalgia” e a non ridurre l’identità italiana alla “pasta fatta a mano”. È un invito scomodo, perché tocca il cuore della nostra auto-rappresentazione: non rinnegare la tradizione, ma riattualizzarla criticamente.
Il tema non è nuovo nel suo percorso. La parabola dell’Osteria Francescana, tre stelle Michelin e due volte “miglior ristorante del mondo” (2016 e 2018), è costruita proprio sul dialogo fra memoria e innovazione: i tortellini possono “camuffarsi” da idee nuove senza perdere anima; il Parmigiano Reggiano resta cardine ma si presta a grammatiche diverse. Qui la tradizione non è restaurata, è riletta. I giudizi ufficiali della Guida confermano questa cifra: “grande visione” e gioco colto fra memoria e cultura.
Oltre la sfoglia: che cosa significa “evolvere”
“Evolvere oltre la pasta fatta a mano” non è uno slogan contro le sfogline: è una presa di posizione contro l’uso consolatorio della tradizione. In pratica: accettare che l’Italia gastronomica è plurale, attraversata da nuove comunità e ingredienti “altri”; considerare la sostenibilità (spreco, energia, acqua) parte del gusto, non un optional; riconoscere che la cucina è comunicazione pubblica: racconta valori condivisi e costruisce immaginari.
Da qui l’idea della cucina come “piattaforma”: un luogo dove si incontrano politica (le scelte sul cibo sono scelte di welfare), ambiente (lo spreco alimentare pesa sulle emissioni) e società (inclusione, lavoro, dignità). Non è retorica: è la logica che ha portato Bottura, già nel 2015 all’Expo di Milano, a trasformare una mensa per fragili — il Refettorio Ambrosiano — in un manifesto operativo, poi tradotto in un’organizzazione, Food for Soul, co-fondata con Lara Gilmore. Oggi, i Refettori da Milano a Rio, da Harlem a San Francisco, salvano migliaia di tonnellate di cibo e servono milioni di pasti come esperienze di bellezza e relazione, non carità. Nel 2020 Bottura è stato nominato Goodwill Ambassador del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente proprio per la lotta allo spreco. E la frase che gli studenti fotografano a Modena nasce qui: “La cultura è il primo passo verso il cambiamento”.
Il peso simbolico delle classifiche: la 50 Best vista dall’Italia
In questo contesto, parlare di classifiche globali — la World’s 50 Best Restaurants in testa — non è pettegolezzo ma politica culturale. La lista 2025, presentata a giugno a Torino, ha incoronato al primo posto Maido di Lima (chef Mitsuharu “Micha” Tsumura), seguita da Asador Etxebarri e Quintonil. Nel top 10 compaiono, tra gli altri, Diverxo, Alchemist, Gaggan, Sézanne, Table by Bruno Verjus, Kjolle e Don Julio. Un solo ristorante statunitense nella top 50 (Atomix, n. 12). È il segno di un panorama che, almeno nelle intenzioni, si globalizza, complice la regola introdotta nel 2019 che esclude dalla lista i ristoranti già saliti al n. 1, favorendo il ricambio al vertice.
Quanto conta, per chi cucina in Italia, una classifica così? Conta, perché muove flussi turistici, investimenti, attenzione mediatica. Ma va letta con occhiali critici. La 50 Best è spesso accusata di scarsa trasparenza del voto, squilibri geografici e di genere, e di essere permeabile a lobbying e junket sponsorizzati. La regola che “pensiona” i vecchi n. 1 è stata vista da alcuni come gesto di diversità; da altri, come una rinuncia a misurare la continuità dell’eccellenza. È utile tenerlo a mente quando celebriamo o ci rammarichiamo: le liste fotografano tendenze e poteri, non sono un oracolo.
Rappresentare l’Italia senza farsi intrappolare dall’icona
Bottura, nell’articolo, lega la discussione su 50 Best a una questione di rappresentazione: quando uno chef italiano sale sul palco, non sale solo una persona, sale un “simbolo” del Paese. È un onore, ma anche un rischio: trasformarsi in cartolina. All’Italia non serve un’icona cristallizzata, serve una voce plurale che metta in scena — e a tavola — la verità del presente: la Bassa padana e il Mediterraneo migrante, l’artigianato e la tecnologia, la memoria e la capacità di metamorfosi. È lo stesso equilibrio che la Francescana cerca da trent’anni: rendere riconoscibile l’Emilia e, insieme, renderla permeabile alle idee del mondo.
Un segnale in questa direzione è arrivato anche dalla serata 50 Best 2025: oltre alla vittoria di Maido, la stampa italiana ha registrato l’assegnazione di riconoscimenti speciali e il buon piazzamento di progetti che ruotano intorno alla “galassia Francescana”. Il racconto di Corriere sottolinea, per esempio, la presenza nella fascia 51-100 di “Al Gatto Verde” — la tavola “green” inaugurata a Modena con Jessica Rosval alla guida — e l’attenzione crescente per gli award trasversali (dalla sostenibilità alla pasticceria) che ridisegnano il senso della classifica. Sono tasselli che continuano a spostare il baricentro dal feticcio al sistema.
E la Francia? E il Perù? Sguardo oltre confine per capire dove andiamo
Per capire il senso del “basta nostalgia” conviene guardare cosa accade altrove. La vittoria 2025 di Maido legittima una cucina Nikkei che intreccia Perù e Giappone con naturalezza: non un tema esotico, ma la normalità di Paesi nati dall’incontro e dalla migrazione. Il podio con Etxebarri e Quintonil certifica una scena iberica e latinoamericana che lega territorio, fuoco e agro-biodiversità a una forte idea politica del cibo. In Asia, il successo di Gaggan e l’ascesa di Potong raccontano metropoli iper-contemporanee dove tradizione e innovazione convivono senza complessi identitari. Per l’Italia è un promemoria: la contaminazione non è una minaccia, è un linguaggio.
Le classifiche vanno bene se non diventano gabbie
La 50 Best non è il Vangelo. È una lente che, se usata bene, aiuta a leggere tendenze e movimenti; se idolatrata, distorce. Ha ampliato lo sguardo oltre l’asse Parigi–New York, ma conserva zone d’ombra: Africa e parte di Cina ancora poco rappresentate, poche donne al comando dei ristoranti in lista, metodologia di voto criticata per la facilità con cui il “voto viaggiante” — cioè l’esposizione di giurati a determinati Paesi e ristoranti — può spostare gli equilibri. La regola del 2019 che “congela” i n. 1 ha dato spazio a nuovi nomi ma non risolve il nodo della equità strutturale. Il rischio è confondere la “popolarità” nel circuito con la “qualità” assoluta.
Per l’Italia, la soluzione non è lamentarsi né adagiarsi sul mito. È lavorare a ecosistemi forti: filiere agricole resilienti, istruzione tecnica aggiornata, reti tra artigiani, scienziati, cuochi, designer, politiche pubbliche che tutelino biodiversità e suolo, e una critica gastronomica capace di valutare impatto e valori oltre allo scintillio del servizio. Qui la cucina come “linguaggio culturale” torna utile: ci dice che il lessico — cioè i piatti — vale quanto la sintassi — cioè i nessi fra cibo, persone e pianeta.