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Catania: «E’ un padre orco» ma ecco il colpo di scena

Di Orazio Provini |

Proprio per questo vi anticipiamo che ometteremo nomi e ogni riferimento che possa portare all’individuazione di qualunque dei soggetti coinvolti, maggiorenni o minorenni che siano. L’unico nome che leggerete è quello del legale difensore del protagonista, un padre condannato in primo e secondo grado a dieci anni di reclusione per violenza sessuale, (carnale) di un figlio che all’epoca dei fatti aveva sei anni.

Un’accusa infamante, tra le peggiori che si possa avanzare nei confronti di un uomo, ancora di più quando, il presunto “orco” e la vittima, sono legati da vincoli familiari. Il signor Giovanni (nome di fantasia) nell’agosto del 2013, nel giorno in cui ospita i figli (l’uomo è separato) abusa sessualmente del più piccolo. E’ quel che sentenziano due tribunali catanesi, in primo e in secondo grado, trovandosi d’accordo sulla pena che condanna l’imputato a dieci anni di carcere (il signor Giovanni è attualmente detenuto in un penitenziario della provincia). Nuove prove fornite dalla sua difesa però – ritenute dalla stessa consistenti e capaci di incidere sul giudicato – hanno portato l’avvocato Corsaro a chiedere non il ricorso in Cassazione, dove non sarebbe stato possibile peraltro esplicitarle, bensì la revisione del processo in altro Distretto (Messina).

Torniamo alla vicenda. La presunta violenza subita dal minore emerge subito, la stessa sera e dopo avere fatto rientro nella casa materna. Sarebbe stato il più grande dei fratellini (all’epoca nove anni) a informare la mamma. La donna porta il figlio alla guardia medica di Gravina, così sostiene (teatro della vicenda è un Comune non molto distante da Catania) ma sul punto emergerebbero scarsi ricordi e mancanza di certezze, oltre che di prove, tanto che in fase dibattimentale sarebbe stata esclusa qualsiasi visita in quell’ambulatorio. Non convinta però dal responso della visita (le sarebbe stato detto che il bimbo presentava problemi di stitichezza) fatta non si sa bene dove e da chi, come sostenuto dalla donna, il giorno dopo porta il figlio al Pronto soccorso pediatrico dell’ospedale Garibaldi di Nesima per un’ulteriore, specifico controllo. Anche in questo caso non sarebbe stata riscontrata la certezza della lesione frutto di violenza. Ma ecco il presunto colpo di scena, la prova determinante, secondo la difesa (che non ha mai smesso di cercare quella visita in quella guardia medica mai ufficializzata) che potrebbe risultare determinante per l’uomo. Sono trascorsi tre anni dal giorno della presunta violenza, era il 4 agosto del 2013. Quel giorno il ragazzino viene portato dalla mamma per un controllo alla guardia medica di Mascalucia e visitato dal medico di turno che registrò quella presenza diagnosticando, come poi riportato sul registro, che si sarebbe trattato di “fissurazione anale lievemente sanguinante compatibile con la evacuazione di feci stiptiche”. Il medico avrebbe per questo prescritto una crema antinfiammatoria e antibiotica, suggerendo alla madre alcuni consigli dietetici proprio per evitare la stipsi. Non sarebbero stati riscontrati segni di violenza, non compatibili con le condizioni fisiche e morali quel giorno del bimbo, che si sarebbe mostrato senza particolari fastidi e sereno anche durante la visita.

Prove quindi, come scrive nella sua richiesta di revisione del processo l’avvocato Corsaro, ritenute fondamentali nell’ambito del procedimento, che se fossero emerse negli anni scorsi, «senza i troppi dubbi e i non ricordo presenti, insieme a dell’altro nel frattempo raccolto, avrebbero senza dubbio cambiato la storia del procedimento».

Un precedente

Una storia tutta all’insegna della vergogna e degli equivoci assurdi quella di Miriam Schillaci, una storia che comincia il 22 aprile scorso del 1989. C’ è una bambina di due anni ricoverata all’ ospedale Niguarda, con lesioni che fanno sospettare la violenza carnale. Subito i sospetti cadono sul padre, tranquillo professore di matematica nell’hinterland milanese. Il tribunale dei minori allontana la piccola dai genitori, e apre una procedura di adottabilità. Lanfranco Schillaci e la moglie giurano di essere innocenti, ma alcuni quotidiani sbattono in prima pagina il mostro-professore, sodomizzatore della figlia. La procura milanese, invece, tiene un atteggiamento prudente: ordina una perizia medico legale e attende prove certe prima di incriminare il padre della bambina. Una decisione che si rivela saggia dieci giorni dopo, quando il professor Antonio Fornari deposita la perizia e scagiona il professore di Limbiate. Il dietrofront del tribunale dei minori è immediato: tutti i provvedimenti vengono annullati e la bambina, ormai in via di guarigione, viene dimessa dal Niguarda. Lanfranco Schillaci e la moglie si precipitano all’ ospedale, riabbracciano la figlia, la riportano a Limbiate, a casa, in quella casa dove per dieci giorni hanno vissuto in stato d’ assedio, le finestre con le tapparelle abbassate, notte e giorno nel mirino delle telecamere, il telefono staccato per sottrarsi alle telefonate anonime di vendetta. La foto di Miriam in braccio al padre, sorridente, appare su tutti i giornali. Sembra la fine di un incubo, ma è un’ illusione. La famiglia Schillaci parte per la Sicilia: un po’ di riposo, per la bimba e il professore, dai nonni, a Piazza Armerina. Ma, purtroppo, Miriam morirà poco tempo dopo per il tumore all’ano che nessuno sino ad allora aveva saputo diagnosticare.

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