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Dentro il Cara di Mineo, la vita che scorre oltre agli scandali

Di Mario Barresi |

Mineo (CATANIA) –  Più che dei verbali avvelenati di Odevaine, qui dentro, hanno paura dei denti aguzzi di Rudy.Un bastardino, dal fare mafioso, capo indiscusso del branco di randagi che assedia l’ex Residence degli Aranci.Che poi – trascorrendo una giornata dentro il Cara di Mineo, il più grande d’Europa e il più indagato del mondo – può sembrare quasi la distratta magnanimità del traffico di Benigni nella Palermo infestata da Cosa Nostra. Il dito anziché la luna. O giù di lì.«Gli ospiti e il personale hanno paura dei randagi. Ci sono state decine di aggressioni. Abbiamo in atto un contenzioso col Comune di Mineo, aspettiamo risposte», ammette Giuseppe Caruso, commissario di nomina prefettizia. Le mani – tardive, ma ora si spera ferme – dello Stato sulla dépendance siciliana di Mafia Capitale.

Mineo, lassù sulla collina, è la limpida cartolina di un presepe nebbioso che si ammira da lontano. Qui dentro c’è un altro paese di quattromila abitanti, fra richiedenti asilo e lavoratori, raggomitolato nelle 400 villette all’americana, tutte paranoicamente identiche. Ancora graziose all’esterno, ma se provi a sbirciare dentro si sente la puzza dei cinque anni vissuti dalla profumata requisizione voluta dal tandem Berlusconi-Maroni.Era il 2011. Davanti al cancello del futuro Cara c’erano i sindaci, di tricolore fasciati, per protestare contro «l’invasione». Poi diventata spartizione. Di disoccupati da sistemare e di sagre da farsi pagare in nome dell’integrazione.Che c’è e non c’è. E non sempre per colpa dei migranti brutti, sporchi e cattivi. Se è vero, come recrimina Ivana Galanti, vicedirettrice del consorzio delle coop, che «a Natale avevamo organizzato una festa invitando le famiglie dei compagni di scuola dei nostri 85 piccoli ospiti, ma su 130 famiglie di Mineo soltanto dieci hanno dato l’autorizzazione per far venire i loro figli qui». Non se n’è fatto nulla. Ognuno è rimasto al suo paese.

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Viaggio tra i migranti: le storie

Non è la prima volta che oltrepassiamo quel filo spinato, in alcune parti bucato (per l’anarchica felicità non solo dei cani randagi), che cinge il mega-villaggio coacervo di scandali. Che hanno ispirato le indagini di quattro procure – Roma, Catania, Palermo e Caltagirone – su appalti truccati, corruzione elettorale, terrorismo e truffe sulle presenze gonfiate. In mezzo, per non farsi mancare niente, anche numerosi arresti di aspiranti rifugiati, che parcheggiati in attesa di un foglio, uccidono (un ivoriano a processo per l’omicidio della coppia di Palagonia), stuprano (quattro nigeriani in carcere per violenza sessuale su una connazionale, poco prima di Natale), spacciano droga, si prostituiscono. O, se va bene, vengono assoldati dai caporali, nelle campagne della Piana, per raccogliere arance a 8 euro al giorno. Quando non le rubano. Anche solo per scacciare la noia. Che talvolta sfocia in violenza, fra questi vialetti alberati con i nomi delle “Road” americane. «Ma si tratta di episodi fisiologici per una comunità di quasi 4mila persone», minimizza Stefano Principato, presidente della Croce rossa etnea. E Serena Leotta, responsabile sanitaria, ricorda che «il vero orrore sono i segni delle torture subite nei campi in Libia o nella traversata». Ma alcuni agenti delle forze dell’ordine, che avrebbero bisogno di “bolle” ministeriali per rilasciare un’intervista, sussurrano sul vialetto principale: «Qui dentro, di porcherie, ne succedono. E noi siamo pochi, spesso mandati allo sbaraglio».

Eppure fra il racconto delle carte giudiziarie e la vita vissuta c’è una certa distanza. Lunga quanto l’ombra di chi sta qui dentro. Ayalew Selam, eritrea, ha affrontato il viaggio dalla Libia col pancione. «Credevo che saremmo morti tutt’e due», dice mentre accarezza il suo Amanuel, nato prematuro. Partorito all’ospedale di Caltagirone come il “gemello unico” della nigeriana O. W., che ha denunciato la sparizione di un neonato. Un giallo che si tende a sgonfiarsi, mentre qui dentro tutti blindano la privacy della donna. «Ha già detto tutto alla polizia, aspettiamo le indagini», ci dicono.Amanuel come Rufael, eritreo, nato il 25 dicembre e ora per tutti «il Bambino Gesù nero». O come Mohamed Aziz, sudanese, venuto al mondo il primo giorno di un 2017 che qui tutti definiscono «l’anno della verità». Ayalew aspetta l’esito della relocation, una parola per celare il fallimento dell’accoglienza nell’Ue matrigna. «Voglio far venire qui mio marito e vivere». Ma come? Dove? «Vivere e basta». Senza aggettivi, né luoghi.

Ci viene incontro Harouna Mareza, 27 anni. «Da due anni spetto l’asilo dopo il rifiuto. Spero che i giudici accettino il mio ricorso». E intanto vive. Con l’80% dei voti è il rappresentante del Mali nel parlamentino del Cara. E sogna: «Voglio diventare cuoco, sto facendo il corso serale per la licenza media. Non andrò altrove per ricominciare da zero. Io voglio restare qui».

Gli altri abitanti sono i 450 lavoratori. «Assunti in cambio di voti», secondo i pm di Catania. «Sfruttati e sotto ricatto», secondo il sindacato autonomo Confali. Ma comunque ancora tutti qui. «Sono molti che hanno preso la tessera di Ncd e che hanno votato per determinati candidati», confessa un operatore subito dopo aver siglato col cronista il patto dell’anonimato. «Ma non è che se uno è raccomandato dev’essere scarso», aggiunge. Il peccato originale (che dovrà essere dimostrato da eventuali processi) resta forse incancellabile. Ma non è invisibile, d’altra parte, la passione di chi lavora dentro il Cara.

Denise Zaksongo, altra vicedirettrice, è la “generalessa” di un esercito in rosa. C’è Roberta Laguidara, psicologa che prova a cancellare le cicatrici delle violenze fisiche e sessuale. «Un’ospite aveva subito uno stupro di gruppo, col marito costretto a guardare. Lei e il suo uomo, quando sono arrivati qui, non riuscivano neanche a sfiorarsi. Adesso, dopo un lungo cammino, aspettano un bambino concepito al Cara…». C’è Francesca Vinciguerra, nei laboratori di lavoro aiuta a «vincere il nemico più grande, che è la noia». C’è Giovanna Marletta, assistente sociale, sul campo «per prevenire le malattie sessuali e le gravidanze indesiderate». Quest’ultime ci sono. Sempre. E non sono poche. Come gli aborti, certificati dall’Asp, anche se «quelli clandestini sono diminuiti», ci dicono.

 

L’esistenza scorre oltre gli scandali, qui dentro. Scandita dal rito del cibarsi. «Tre pasti al giorno con cinque menu per le esigenze di sette etnie», dicono. Ma Patrick, nigeriano, si lamenta: «Spaghetti bleah», dice con un chiaro gesto. E poi i corsi, le lezioni. «Io sono, tu sei, egli è…». Voce del verbo essere. Sinonimo di sopravvivere, in attesa di altro.Si disputa la Coppa del Mondo sul campetto in erba che prima era dei marines. Nizar, fra i pochissimi siriani ospiti (poco meno di 30) sta in panchina. Nel calcio e nella vita. «Aspetto la carta e poi vado in Germania», ci dice mentre lustra la sua bici. I tempi d’attesa si sono ridotti: dall’ingresso all’esito della richiesta d’asilo passano 6 mesi (prima erano anche 18). Ma, poiché quasi tutti ricevono un rifiuto e fanno ricorso, i tempi supplementari durano anche due anni.

Il sole si nasconde. Tira un vento gelido. Sembra trascinare con sé una verità. Amara: il sistema italiano dell’accoglienza, anche se volesse chiudere questa prigione lussuosa a cielo aperto, non potrebbe farlo. Dove li metti 4mila migranti al giorno nella terra degli sbarchi? Non c’è alternativa. Perché nessuno l’ha voluta creare. Per incapacità o per lasciare aperto un posto che costa 30 milioni l’anno? Non è dato saperlo. «Sì, è un centro troppo grande – ammette Caruso – ma noi dobbiamo farlo funzionare così».

Una maledizione. O forse una beffa. Nel gioco dell’oca, al Cara di Mineo, quando sembra che si facciano passi avanti, c’è qualcuno o qualcosa che ti riporta alla casella di partenza. O quasi.

 Infine, incontriamo Yusuf Oyarekuha. Nigeriano, 26 anni, disabile dalla nascita. Scorrazza su un mezzo che gli hanno regalato dopo una colletta. Tre ruote per sostituire le sue due gambe. «Sono qui perché un mio amico mi ha portato sulle spalle». Dalla Nigeria alla Libia. E poi sul barcone. Fino alla Sicilia. «Il mio handicap per la mia famiglia era una maledizione: mi tenevano prigioniero in casa». Poi la fuga, il viaggio a bordo del suo angelo. Ora c’è l’oggi. «Non sono stato mai trattato come un essere umano. Per me è la prima volta». Poi il domani: «Studio per diventare un informatico». E la promessa: «Non voglio essere un peso per voi, un disabile storpio. Voglio ridarvi quello che mi avete dato».

 Il blu si scioglie. È il tramonto. Appena un po’ meno grigio. Di Odevaine, degli scandali. E di come ti aspetti che sia. Qui dentro.

 Twitter: @MarioBarresi

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