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Cattura Andrea Nizza, «Se ho fatto peccato potrà dirlo soltanto ‘u Signuruzzu…»

Di Concetto Mannisi |

Uno sguardo allo spioncino per avere certezza che si trattasse effettivamente dei militari dell’Arma (i quali a loro volta, ovviamente, avevano già circondato l’intero perimetro dell’abitazione), un paio di giri di chiave all’incontrario per sbloccare la serratura e, all’improvviso, la latitanza di Andrea Nizza non aveva più segreti per i carabinieri e per i magistrati della Procura che avevano coordinato l’attività investigativa finalizzata alla cattura di uno dei cento ricercati più pericolosi inseriti nello specifico elenco del Ministero dell’Interno, nonché capo dell’ala militare della famiglia Santapaola e narcotrafficante dalle mille risorse.

Nizza e la moglie non si sono fatti prendere dal panico e hanno provveduto a calmare la figlioletta, scoppiata in lacrime (i due più figli grandi pare avessero lasciato la casa alcuni giorni fa, per ricominciare a frequentare l’istituto scolastico cui sono iscritti). Ciò mentre davanti ai militari si presentavano altri due soggetti, che subito sono stati a loro volta arrestati per favoreggiamento personale nei confronti del latitante, reato aggravato dall’aver commesso il fatto per agevolare l’organizzazione mafiosa “Santapaola-Ercolano”. Si tratta dei coniugi Mario Finamore e Amalia Agata Arena (niente a che vedere, quest’ ultima, con i “dirimpettai” dei Nizza – gli Arena per l’appunto – un tempo signori del “palazzo di cemento” del viale Moncada 3), rispettivamente di 30 e 26 anni, due incensurati residenti in viale Grimaldi che sembra il Nizza stipendiasse per avere da loro un aiuto concreto durante la latitanza. Un aiuto che riteneva non potesse essergli fornito da altri affiliati al clan, visto che dava per scontato che le forze dell’ordine avrebbero tampinato gli appartenenti alla famiglia (di sangue e non soltanto…) e che, magari, avrebbero cercato di sfruttare eventuali indicazioni del fratello pentito Fabrizio, in realtà ormai fuori da “quei” giochi da troppo tempo e, quindi, difficilmente in grado di aiutare i cacciatori.

Finamore e la Arena, invece, potevano muoversi serenamente. Sono stati loro, attraverso un sito di annunci online, a prendere contatti con il proprietario della villetta di via Indirizzo – un professionista della provincia di Agrigento – e a chiudere a tempo di record una trattativa alla cui definizione, tanto per non farsi mancare niente, non è stata fatta seguire la registrazione dell’atto di locazione.

In pratica per lo Stato era come se in quella casa, da un anno a questa parte (un anno fa l’affitto, ma non è detto che Andrea Nizza si sia trasferito immediatamente in quella dimora), non vivesse nessuno. E ciò benché i Finamore entrassero e uscissero frequentemente dalla villetta, benché i figli di Nizza giocassero nella terrazza visibile da quella stradina comunque non molto trafficata (i loro giochi, dall’esterno, si potevano vedere anche ieri), nonostante il latitante accendesse con una certa frequenza il “fucuni”, per grigliate abbondanti e che gli hanno fatto mettere su più di qualche chilo.

Rispetto all’ultima foto segnaletica, infatti, il Nizza si è presentato più grasso e con meno capelli: «Ma ora finiu» ha commentato con i carabinieri che lo avevano appena arrestato, nella consapevolezza che da quel momento in poi avrebbe cominciato a pagare per le sue colpe. Almeno dieci anni di reati di alto livello, compreso l’omicidio di Lorenzo Saitta “ ‘u scheletru” – l’unico fatto di sangue che, a dispetto della sua personale vivacità e della sua storica familiarità con le armi, gli viene contestato (e per il quale è stato condannato a 30 anni in primo grado) – su cui Nizza, guardando verso il cielo, ha espresso soltanto un laconico commento: «Se ho peccato, lo stabilirà ‘u signuruzzu…».

Sprovvisto di documenti, nella villetta di Viagrande il rampollo della famiglia Nizza non aveva armi né stupefacenti. Piuttosto un frigorifero ben fornito, una palestra con cyclette, bilanciere, dischi e sacco da pugile, nonché 800 euro in contanti per le emergenze del caso. Sembra che non avesse neppure un telefonino cellulare, per evitare di essere ascoltato o localizzato. I messaggi ai suoi sodali venivano inviati attraverso lettere «comu a chiddri do cacciri» che, di volta in volta, venivano consegnate alla moglie, di cui l’uomo porta il nome tatuato nel braccio. Un amore che, almeno per un po’, andrà avanti a distanza….

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