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Tragedie greche, una battaglia “sonora” tra cinema e narrazione

Di Carmelita Celi |

Più che l’ineluttabile percezione dell’emergenza, a creare attese ed aspettative nei Sette contro Tebe di Eschilo – che ha inaugurato ieri, al Teatro antico di Siracusa, il 53° Ciclo di spettacoli dell’Inda – sono le battute che Marco Baliani, regista e “dramaturg”, scrive per un aedo-custode del Mito, quasi passandogli il testimone d’un rito che officia da sempre, il teatro di narrazione. È dunque un cantore e non Eteocle, come previsto nell’originale discutibilmente sfrondato dal regista e restituito nell’italiano liricamente asciutto di Giorgio Ieranò, a parlare per primo ai “viandanti del tempo” (pubblico foltissimo ma non da “tutto esaurito”, almeno ad occhio nudo).

L’aedo (un appassionato e disincantato Gianni Salvo a cui toccherà, alla fine, tirare le corde di un sipario invisibile sulla “inesausta tragedia”) racconta in sedicesimo la vicenda dei figli di Edipo, Eteocle e Polinice, nemici fino ad uccidersi l’un l’altro. E anticipa anche l’indicazione, quasi shakespeariana, del meccanismo che lega autorità, popolo, divinità.

Poco più tardi, quando il Coro, stracciato nell’animo e nelle vesti senza tempo (costumi e scene di Carlo Sala) abiterà la scena, tutto ciò verrà dalla voce di Eteocle che in Eschilo è pratico, disilluso, è fiero autocrate rappresentante del potere ma è pur sempre un re gagliardo in giusta lotta con l’invasore Polinice e non ancora ambizioso e dispotico come nell’Euripide di Fenicie.

E Marco Foschi, guizzante presenza scenica e bella tenuta vocale anche durante i non pochi inciampi fonici che hanno animato il debutto, gli dà il piglio credibile del giovane adulto, razionalmente invasato quanto basta.

Non dalla scena si leva il suo primo proclama per i “cittadini di Cadmo” e neppure dal theologheion, ci mancherebbe, piuttosto da un balconcino, a metà tra Ventennio e campagna elettorale, ricavato all’esterno d’una casetta che sostituiva la garitta d’avvistamento durante la dominazione spagnola e che, a un passo dalla cavea, sorprende gli spettatori alle spalle.

Farà il suo ingresso in scena, Eteocle, come fosse obbligato a coprire i lamenti delle donne che, nell’eterna querelle tra uomini e dei, hanno qui un atteggiamento, per così dire, cristiano: sono donne di guerra dunque amiche della fede nella salvezza e nemiche del sangue che contamina e dell’inutilità di farsi ammazzare.

Sono animose ed animate, le “cristiane”, epiche senza ostentazioni (coreografie di Alessandra Fazzino, danzatori Massimiliano Frascà e Liber Dorizzi) in un Coro (composto dai giovani dell’Accademia d’arte dell’Inda della sezione intitolata a Giusto Monaco) che, secondo la scelta decisamente più “facile” che ha ormai la meglio da anni, non concerta all’unisono ma è frammentato in interventi che paiono, qui, stralci di reportage di guerra.

E se il diktat arcaico della “tragodìa” vuole che l’eccidio si consumi “fuori”, il nemico vero che non si vede se non alla fine, cadavere a fianco ad altro cadavere, consanguineo in vita e in morte, è la musica (Mirto Baliani) che è mélange dissonante e minaccioso di voli di rapaci, galoppi, nitriti, elicotteri, scoppi di mine. Non suonano come didascalie ma memorie riconoscibili di un futuro passato. E nell’affastellamento di suoni, la scena biomeccanica del massacro può reggere così come non naturalistica è la macchina del fumo in una città messa a ferro e a fuoco.

Da un canto, il raccapriccio raccontato dal Messo/Araldo (Aldo Ottobrino) diventa beffardo nella “illustrazione” mimetica del Coro, dall’altro, le sette porte non sono che aste con piedi di pietra, “abbracciate” da maschere e scudi. Il Coro non fa distinzione e rende onori funebri ad entrambi, sezionandosi in due semicori: la voce “contro” è di Antigone, non ancora sofoclea ma già assai inflessibile, fors’anche un tantino sopra le righe, in corpo e voce di Anna Della Rosa, a cui sono state inspiegabilmente regalate molte battute del coro. Ma il funerale nazionale è una falsa catarsi. La terra sconquassata vomita un altoparlante che sembra quello terrorizzato da Hynkel nel Grande dittatore di Chaplin, l’albero si sfalda a vista come il fucile nelle commedie dell’Ottocento che, in scena al I atto, spara al terzo.

Applausi, sì, ma platea, anzi, cavea “divisa”, alla fine.

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