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Viaggio tra storia e ricordi di famiglia I Maraini prigionieri in Giappone

Di Maria Lombardo |

Nel 1938, Topazia e suo marito Fosco Maraini (lui antropologo e orientalista, dal 1935 all’università di Kyoto) si trasferiscono in Giappone. Dopo un periodo di tranquillità, nel ’43 arriva l’armistizio che pone fine alla Seconda Guerra mondiale. Alla richiesta di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò, i Maraini dicono di no e vengono deportati in un campo di prigionia assieme alle tre figliolette: violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno. Mujah Maraini-Melehi, la nipote di Topazia e Fosco, a distanza di anni, parte per il Giappone per rielaborare questa traumatica esperienza familiare. Cerca tracce del passato, foto d’epoca, testimonianze (quella di Topazia è raccolta poco prima della sua scomparsa nel 2015 a 102 anni), i ricordi di Dacia e della sorella Toni. La regista trova soluzioni narrative ed estetiche (ricorrendo al teatro di schermi giapponese dogugaeshi), si mette in gioco in prima persona e compare come viaggiatrice in cerca di memorie e di risposte per il presente (chi siamo, da dove veniamo): il risultato è un’opera rara e preziosa.

I Maraini si riconciliano col passato ma lo spettatore – e ancor di più lo spettatore siciliano – trova attraverso la famiglia Alliata (il bisnonno teosofo, la nobiltà dei valori più che la nobiltà del sangue) e la figura di Fosco (che tra l’altro fece parte con il cugino Francesco Alliata della Panaria Film) uno spaccato di una storia più ampia di quella di un gruppo familiare.

«E’ importante per tutti – dice Muja – conoscere la nostra storia che comincia con la famiglia. Avevo sentito parlare sin da bambina della vicenda del campo di prigionia in cui erano finiti i miei nonni con mia mamma e le sue sorelle bambine e volevo capire cosa fosse stata l’esperienza giapponese. Mia madre, che pure è nata a Tokyo, non ha voluto tornarci e sono andata da sola. Non ho cercato solo i luoghi, i campi di prigionia, ma anche le radici di una certa estetica giapponese sempre presente nella mia famiglia per via degli studi di mio nonno Fosco. Il mio è un piccolo film, un haiku, una poesia giapponese molto breve, ma è una grande storia». «Nel campo di prigionia con i miei – dice Dacia – capivo che i giapponesi come popolazione erano con noi, a differenza dei militari sadici. Muja ha ricostruito un Giappone sotterraneo che non ne poteva più della guerra. Ha tirato fuori non solo il lato estetico ma anche quello emotivo». E Toni, madre di Muja, aggiunge: «La voce di mia madre Topazia è importante. Lei tenne a ribadire che anche lei aveva detto no al Nazifascismo perché aveva una testa e un’identità: non era un oggetto al seguito del marito».

«L’ho montato nella mia testa questo film – riprende Muja – ascoltando musiche di Sakamoto. Non avevo il coraggio di chiedere a un musicista così importante di fare della musiche appositamente. Ma quando gli ho esposto il progetto, mi ha invitato da lui a New York e si è offerto di collaborare». Così le musiche di Ryūichi Sakamoto contribuiscono molto all’atmosfera rarefatta di viaggio nella memoria, una sorta di recupero di atmosfere e percezione dei luoghi.

Dacia nel film racconta di come «mangiavamo formiche e altri insetti, rettili e topi, qualsiasi cosa per vincere i morsi della fame», mentre con l’anima di bambina gioì di aver salvato una piccola rana impaurita dalla caccia spietata dei detenuti nel campo. Piccoli tasselli di una grande storia narrata con leggerezza, attraverso le interviste alle persone ancora in vita e la partecipazione di Basil Twist, uno dei più importanti master – puppeteer al mondo con le scenografie ispirate al teatro di schermi giapponese. L’orrore della guerra, le bombe sganciate sul Giappone, la voce dell’imperatore che annuncia la resa, suggestivi effetti visivi. Vera storia e atmosfera onirica.

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