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Articolo di Mario su Raccoltaaa

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Di Mario |

CATANIA – C’è la testimonianza di un uomo che si autodefinisce «strapazziere». Ha lavorato per un anno a 600 euro al mese, «anche 30 giorni al mese, senza sabati domeniche o festività, nessuno straordinario pagato e fino a 14 ore di lavoro al giorno». Un rapporto di 6-7 mesi, mentre «da luglio a ottobre era tutto completamente in nero, a 400 euro al mese». Lo «strapazziere» si sfoga: «La politica aziendale era “o ci stai o te ne vai”, e io per ragioni economiche ho sempre accettato». Ma il punto non è questo. Così come la radice del male non è soltanto legata allo sfruttamento dei richiedenti asilo del Cara di Mineo (10-15 euro a giornata) o dei bracciante romeno della Piana di Catania.

Questa storia si racconta con una domanda: «Ma se oggi, come per magia, i caporali non esistessero più, esisterebbe ancora lo sfruttamento del lavoro? I braccianti, stranieri e non, verrebbero ancora sfruttati?». E con una risposta, che – drammaticamente – è: sì. E così il secondo rapporto #FilieraSporca, dal suggestivo sottotitolo “La raccolta dei rifugiati”, parla di nuove schiavitù. Ma va oltre. «Perché i caporali sono solo un anello di una lunga catena in cui convivono tutti: i braccianti, i caporali, la grande distribuzione, le organizzazioni dei produttori e la criminalità organizzata, in un miscuglio di mancanza di informazioni che rende impossibile capire da dove arrivano i prodotti di cui ci nutriamo». Un racconto siciliano. Molto siciliano. Come tantissimi aspetti di #FilieraSporca – a cura di “daSud”, “Terra” e “Terrelibere.org”. «Un viaggio per indagare le cause del caporalato nell’anno che ha fatto registrare oltre dieci morti nei campi e centinaia di migliaia di braccianti, stranieri e italiani, sfruttati».

Eppure #FilieraSporca «interroga e fornisce le risposte dei grandi attori della filiera agroalimentare, denuncia la mancata trasparenza della Gdo e il ruolo distorto delle Organizzazioni dei produttori che agiscono come moderni feudatari, dimostra come il costo delle arance riduce in povertà i piccoli produttori e lascia marcire il made in Italy». Gran parte del rapporto si occupa delle arance siciliane. Per la quale «il 2016 è stato l’annus horribilis», costellato di accordi col Nord Africa e condizioni meteo sfavorevoli.

«Nel 2016 quasi il 70% del prodotto è stato di pezzatura medio-piccola, la Gdo questo prodotto non lo vuole e noi siamo stati costretti a conferirlo alle industrie della trasformazione dove le quotazioni sono al minimo», spiega Salvatore Pannitteri, titolare di una “big” della commercializzazione. I prezzi hanno toccato il minimo di 16/20 centesimi al chilo per il prodotto “fresco” e di 5/7 centesimi al chilo per il prodotto destinato alla trasformazione. «Però ai mercati all’ingrosso le arance sono state conferite dai commercianti a prezzi remunerativi», osserva Salvatore Milluzzo, presidente del Consorzio di Tutela dell’arancia rossa di Sicilia Igp.

E allora qual è il problema? Innanzitutto, secondo il report, è strutturale. L’agricoltura siciliana è troppo polverizzata. Nell’Isola ci sono 5.692 produttori e 45 Op con una media di 126 produttori per OP. Per capirci: Emilia Romagna ci sono 25 Op per 26.790 produttori e in Trentino Alto Adige 7 Op per 26.741 produttori. Ma l’agru – micoltura sconta un altro deficit. Quella delle arance in Sicilia è una “filiera invecchiata”. «I produttori sono mediamente pensionati over 60, spesso mantengono gli agrumeti per ragioni affettive», si legge nel rapporto. La filiera, appunto. Nel rapporto si parla di «livello intermedio»: Op (organizzazioni di produttori) e commercianti. «Tra i principali fornitori della Gdo ci sono le Op, che gestiscono la raccolta degli agrumi nei terreni dei propri associati e anche in quelli di altri produttori presso cui si approvvigionano. Sono loro che contrattano il prezzo con la distribuzione e, per le arance di scarto, stipulano contratti con la locale industria di trasformazione».

Sono anche i commercianti che contrattano i prezzi con Gdo e trasformazione. «Molto spesso per raggiungere i quantitativi prodotti comprano arance dai produttori sparsi sul territorio», si legge nel report. Nella filiera i produttori costituiscono senza dubbio l’ultimo anello. «Il prezzo viene fatto dai commercianti quando il frutto è ancora sulla pianta – nel gergo locale si chiama “vendita a corpo” o “vendita a strasatto” – oppu – re, se si tratta di arance destinate alla trasformazione, il prodotto viene portato direttamente in magazzino e lì viene pesato e pagato».

«Una situazione – ricorda Federica Argentati, presidente del Distretto Agrumi di Sicilia – che da tempo abbiamo fatto presente. Il prezzo pagato ai produttori di arance è eccessivamente basso e occorre al più presto rinnovare l’accordo di filiera “prodotto trasformato”. Ci aspettiamo che l’assessorato regionale all’Agricoltura si attivi subito per dare corso agli impegni presi, prima dell’avvio della prossima campagna agrumicola». Anche perché la beffa è dietro l’an – golo: per fare il succo le arance vengono da tutt’altra parte del mondo. «La quantità di prodotto che arriva dall’estero – Brasile e Argentina soprattutto – reimmessa nel mercato come prodotto italiano senza nessun controllo, contribuisce all’abbassamento del prezzo», sostiene #FilieraSporca.

Un dato che serve a dimostrare perché «è chiaro che c’è qualcosa che non torna»: l’industria di trasformazione fattura 400 milioni l’anno ma si comprano agrumi per 50 milioni. Infine, quello dei trasporti è «il pezzo della filiera dell’arancia a più alto rischio di presenza mafiosa». Nel settore dell’ortofrutta, secondo la Coldiretti, i prezzi possono moltiplicarsi fino al 300% dal campo alla tavola anche per effetto del controllo monopolistico dei mercati operato dalla malavita. Ma questa è un’altra storia.

Twitter: @MarioBarresiCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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