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EMERGENZA IMMIGRAZIONE

Migranti, hub di rimpatrio fuori dall’Ue: la nuova frontiera che divide l’Europa e il precedente dei centri in Albania

Una bozza di accordo accende il dibattito: trasferimenti in Paesi terzi, detenzioni prolungate e “Paesi sicuri”. Tra pressioni politiche, sperimentazioni contestate e dubbi di legalità, ecco cosa cambia davvero e cosa resta aperto.

Alfredo Zermo

08 Dicembre 2025, 17:38

Hub di rimpatrio fuori dall’Ue: la nuova frontiera che divide l’Europa

Un tabellone degli arrivi lampeggia al terminal di Shëngjin, costa nord dell’Albania. È notte fonda e il vento di tramontana piega i fanali del porto. Lì, nelle scorse settimane, sono sbarcate persone intercettate in mare da navi italiane. Alcuni di loro sono poi rientrati in Italia per ordine dei giudici. Eppure, a Bruxelles, nel pomeriggio di oggi, i ministri dell’Interno dei 27 hanno compiuto un passo che può trasformare quell’immagine in un modello: un via libera politico perché gli Stati membri organizzino “hub di rimpatrio” in Paesi terzi, dove trattenere i migranti respinti e da cui avviare l’espulsione verso i Paesi d’origine. Una svolta che promette velocità ed efficienza, ma che apre anche un fronte delicatissimo su diritti, garanzie e responsabilità.

Che cosa prevede la nuova cornice politica

Nel dossier emerso al Consiglio dell’Unione europea del 8 dicembre 2025, i governi hanno definito la loro posizione negoziale sul nuovo regolamento Ue sui rimpatri. Il testo, in estrema sintesi, introduce standard comuni per l’allontanamento delle persone che non hanno diritto a restare e consente agli Stati membri di concludere accordi bilaterali con Paesi terzi ritenuti idonei ad accogliere hub di rimpatrio. Quegli “hub” potranno essere strutture di transito o permanenti, nelle quali i migranti – già destinatari di un provvedimento di rimpatrio – possano essere trattenuti per il tempo necessario all’esecuzione del volo verso il Paese d’origine.

Secondo la posizione dei governi, gli hub possono essere attivati anche in assenza di legami di origine tra la persona e il Paese terzo ospitante, purché sussistano garanzie di sicurezza, trattamento dignitoso e controllo giurisdizionale. Una clausola che punta a superare i vincoli che per anni hanno frenato l’“esternalizzazione” delle procedure, e che si accompagna all’idea – già introdotta nel Patto migrazione e asilo – di una lista Ue di “Paesi sicuri” per accelerare le domande considerate manifestamente infondate.

“Hub di rimpatrio”: che cosa sono e come funzionerebbero

Per hub di rimpatrio si intendono centri collocati al di fuori del territorio dell’Unione dove collocare, per un periodo definito, persone con diniego definitivo dell’asilo oppure con ordine di espulsione. L’obiettivo è ridurre tempi e costi delle procedure e aumentare la percentuale di allontanamenti effettivi, oggi ferma – secondo diverse stime Ue – attorno a 1 su 4 decisioni di rimpatrio eseguite.

Possono essere strutture di transito (breve permanenza, in attesa di un volo) o centri permanenti con servizi sanitari, legali e di identificazione. Le regole sulla detenzione amministrativa – durata massima, convalida giudiziaria, accesso ai legali – restano centrali per valutarne la compatibilità con la Carta dei diritti fondamentali.

Il quadro si appoggia a due pilastri: gli accordi bilaterali tra Stati membri e Paesi partner (con incentivi economici e cooperazione di polizia) e il riconoscimento di Paesi sicuri o di Paesi terzi sicuri per i trasferimenti. È una combinazione che consente sia il trattenimento in attesa del rimpatrio, sia la rielaborazione delle procedure fuori dall’Ue.

La frizione con il diritto internazionale

Il cuore della controversia è tutto qui: se e fino a che punto uno Stato europeo possa inviare una persona verso un Paese terzo con il quale quella persona non ha alcun legame, senza violare il principio di non-refoulement, gli standard della Convenzione di Ginevra e gli obblighi derivanti dalla CEDU. Le organizzazioni umanitarie – tra cui Amnesty International e Human Rights Watch – ammoniscono che tali trasferimenti, specie se avvengono in regimi di detenzione e verso Paesi con standard fragili, rischiano di sfociare in abusi, detenzioni arbitrarie e catene di respingimenti. Denunciano inoltre che l’esternalizzazione allontana l’Ue dalla tutela effettiva del diritto d’asilo, spostandone l’onere su Paesi con sistemi giudiziari e garanzie meno robuste.

Dall’altro lato, i governi che sostengono il piano – tra questi, con accenti diversi, Danimarca, Italia, Grecia, Austria, Lettonia, Malta, Bulgaria, Germania e Repubblica Ceca – lo descrivono come un deterrente contro le partenze irregolari: se il messaggio passa, dicono, le reti dei trafficanti perdono appeal perché cala la prospettiva di restare in Europa anche dopo un diniego.

Il precedente italiano in Albania: un caso di scuola, e di attrito

Per capire la potenza e i limiti degli hub in Paesi terzi, basta guardare all’intesa fra Roma e Tirana. Il governo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il premier Edi Rama hanno firmato un protocollo per istituire in Albania due centri a gestione italiana: uno a Shëngjin (per lo sbarco e il “triage”) e uno a Gjader (per trattenimento e rimpatrio). Nei piani, la capienza combinata avrebbe dovuto raggiungere alcune migliaia di persone, con un obiettivo di gestione fino a circa 3.000 migranti al mese, e un investimento pubblico stimato nell’ordine di centinaia di milioni di euro.

La pratica, però, si è rivelata complessa. A fine gennaio 2025, i primi trasferimenti hanno incontrato un alt in sede giudiziaria: la Corte d’Appello di Roma non ha convalidato i trattenimenti, disponendo il rientro in Italia di decine di persone e rimettendo alla Corte di giustizia Ue questioni pregiudiziali sulla qualificazione di “Paese sicuro” e sulla legittimità delle misure di privazione della libertà. Risultato: centri semivuoti e un contenzioso aperto.

Il governo ha risposto a fine marzo 2025 con un decreto che amplia la funzione del centro di Gjader, consentendo di trattenere anche migranti già presenti in Italia e destinatari di un ordine di espulsione. L’obiettivo dichiarato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è “allineare” le regole nazionali all’architettura Ue dei futuri hub di rimpatrio e “riattivare” una infrastruttura altrimenti ferma. Ma le ONG contestano che l’assetto albanese replichi, aggravandoli, i problemi dei Cpr italiani: scarsa trasparenza, difficoltà di accesso alla difesa legale, rischio di trattenimenti prolungati fino a 18 mesi senza un effettivo controllo di proporzionalità.

La lista Ue dei “Paesi sicuri” e le procedure accelerate

A fare da cornice c’è un altro tassello politico-giuridico: l’elenco Ue dei “Paesi di origine sicuri”. La Commissione europea ha proposto nel 2025 un primo elenco con Bangladesh, Egitto, India, Tunisia, Marocco, Colombia e Kosovo, successivamente sostenuto in sede parlamentare. L’inserimento in lista consente di accelerare l’esame delle domande e facilita i rimpatri dei cittadini di quei Paesi, salvo eccezioni per categorie vulnerabili o aree territoriali critiche. È un passaggio chiave perché, combinato con gli hub di rimpatrio, offre strumenti per comprimere i tempi tra diniego e partenza.

Anche qui non mancano i contrasti. Le ONG sottolineano che in alcuni di quei Paesi esistono rischi specifici per oppositori politici, giornalisti, LGBTI, minoranze religiose. La presunzione di sicurezza, se applicata in modo meccanico, potrebbe tradursi in rigetti sommari e in una sottovalutazione delle situazioni individuali che giustificano protezione.

Il voto politico al Consiglio non chiude comunque il percorso. La partita passa ora al Parlamento europeo, chiamato a negoziare i dettagli con i governi. Sul tavolo restano vari nodi: gli standard minimi per aprire un hub, il perimetro delle garanzie procedurali, i controlli indipendenti, la durata massima dei trattenimenti, i criteri per individuare i Paesi partner e la clausola di sospensione in caso di peggioramento dei diritti umani.

Intanto, la Commissione europea ha già messo in campo una proposta – definita nei mesi scorsi – che istituisce un “Sistema europeo per i rimpatri” e fornisce la base legale per gli hub, senza renderli obbligatori né uniformi. La differenza non è di poco conto: ogni Stato resterà libero di negoziare accordi bilaterali su misura, con le proprie garanzie e i propri incentivi. Questo può accelerare i progetti pilota, ma rischia di creare un mosaico di prassi disomogenee.