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L'oro di Bankitalia «appartiene al popolo»? Perché la BCE ha stoppato (di nuovo) l’emendamento sulle riserve auree

Secondo altolà sulla proposta del governo. Ma perché Fdi ci tiene tanto a inserire in Finanziaria una formula apparentemente di principio? E qual è la vera partita in ballo?

Redazione La Sicilia

09 Dicembre 2025, 11:56

lagarde meloni oro

La scena è questa: nel silenzio dei caveau di via Nazionale, tra oltre 95mila lingotti catalogati, sigillati e verificati a campione ogni anno, un’etichetta virtuale viene raddrizzata e poi rimessa di traverso. «Appartiene a chi?», è la domanda che echeggia dalle stanze dell’Eurotower a Francoforte ai corridoi del MEF a Roma. Non è questione di lucchetti o di barre d’acciaio, ma di parole e di diritto. E, per la seconda volta in una settimana, la Banca centrale europea ferma l’emendamento alla manovra che vorrebbe dire, in sostanza, che l’oro «gestito e detenuto» da Banca d’Italia «appartiene al popolo italiano». La nuova formulazione - spedita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in una lettera datata 4 dicembre - non convince: secondo la BCE, la finalità resta «non chiara» e il rischio è quello di una frizione con il principio cardine dell’indipendenza delle banche centrali.

Cosa è successo nelle ultime ore

La BCE ha diffuso un parere che respinge anche la riformulazione light del testo: tolto il riferimento allo «Stato», resta l’enunciato sull'«appartenenza al popolo». Per Christine Lagarde, senza una finalità chiara la norma va «riconsiderata» per preservare l’esercizio indipendente dei compiti di Banca d’Italia nel SEBC.

Il Ministero dell'Economia ha trasmesso la nuova versione dell’emendamento con una missiva del 4 dicembre, inserendo richiami espliciti ai Trattati UE sulla detenzione e gestione delle riserve. Ma la precisazione non basta: l’Eurotower chiede motivazioni e scopo, non solo riferimenti di principio. Il ministro Giancarlo Giorgetti annuncia una risposta di chiarimento e si dice fiducioso, mentre in Parlamento la maggioranza - trainata da Fratelli d’Italia - rivendica la formula simbolica.

Il punto di diritto: gestione esclusiva vs proprietà

In area euro i Trattati definiscono con estrema nettezza chi «detiene e gestisce» le riserve ufficiali (oro compreso): le banche centrali nazionali, all’interno dell’architettura del SEBC (il sistema europeo di banche centrali). La parola «proprietà», invece, non è il perno giuridico della cornice europea. Per questo, ai fini della BCE, introdurre nell’ordinamento una proclamazione sull'«appartenenza al popolo» - pur senza toccare formalmente gestione e contabilità - apre un varco di ambiguità: a cosa serve, esattamente, dirlo nella legge di bilancio? A quali effetti pratici potrebbe preludere? Finché non c’è una finalità esplicita, dice Lagarde, meglio «riconsiderare».

«Non è una questione banale», ha scandito la presidente della BCE, ricordando che l’Italia è il «terzo detentore di oro tra le banche centrali» e che la Banca d’Italia «ha il dovere di detenere e gestire» quelle riserve. È un passaggio politico oltre che tecnico: la BCE difende la propria area più sensibile - l’indipendenza operativa - da qualunque scivolamento retorico che, in futuro, qualcuno potrebbe provare a interpretare in chiave di disponibilità di bilancio pubblico.

Dove sono e quanto valgono le riserve: i numeri chiave

La quantità di oro italiano ammonta a 2.452 tonnellate (di cui circa 4,1 tonnellate in monete, il resto in lingotti). Circa il 44,9% si trova in Italia (via Nazionale), il 43,3% negli Stati Uniti, il 6,1% in Svizzera, il 5,7% nel Regno Unito. Nel caveau di Banca d’Italia è custodita anche una quota di 100 tonnellate conferite alla BCE all’avvio dell’euro.

A fine 2024 il controvalore era di circa 197,9 miliardi di euro; con il rally successivo, alcune stime di stampa collocano oggi il valore intorno a €270-285 miliardi a seconda dei prezzi di mercato. La quantità è rimasta invariata.

Questi dati non sono meri dettagli contabili. Dicono, anzitutto, che l’oro è un presidio di fiducia: serve a rafforzare la credibilità del sistema finanziario e della moneta, e - come ricorda Bankitalia - assume un ruolo ancora più importante in fasi di turbolenza geopolitica o di mercato. Dicono anche che la diversificazione geografica della custodia è una scelta tanto prudenziale quanto operativa: poter mobilitare il metallo nelle principali piazze internazionali riduce tempi e costi in caso di necessità.

Perché la formula «appartiene al popolo italiano» non piace a Francoforte

L’obiezione non riguarda l’ovvio - nessuno dubita che l’oro sia un bene pubblico - ma il «come» lo si scrive in legge e il «perché» lo si precisa ora, dentro una manovra di bilancio. La BCE teme che l’enunciazione dell'«appartenenza» possa essere letta, oggi o domani, come una premessa per rivedere le competenze su gestione e destinazione delle riserve, o per creare aspettative politiche sulla loro utilizzabilità a fini di finanza pubblica. È qui che scatta il cortocircuito con il divieto di finanziamento monetario e con l’indipendenza delle banche centrali sancita dai Trattati: due architravi su cui l’Eurozona non è disposta a transigere.

Nel parere recapitato al Ministero dell'Economia, la BCE nota inoltre una carenza di documentazione a supporto e insiste sulla necessità di una consultazione piena con Banca d’Italia prima di procedere. Non è formalismo: chi detiene e gestisce, secondo i Trattati, deve essere coinvolto nella motivazione e nella coerenza normativa di qualsiasi enunciato che tocchi l’assetto delle riserve.

Il contesto politico: simboli, manovra e messaggi al mercato

L’emendamento, presentato nell’alveo della legge di bilancio e sostenuto da esponenti di Fratelli d’Italia, piace alla maggioranza perché suona come un richiamo identitario: l’oro è «del popolo». Il governo di Giorgia Meloni ha già ammorbidito la prima versione, che parlava esplicitamente di «appartenenza allo Stato», spostando l’accento sul popolo. Eppure anche la variante soft non supera i rilievi dell’Eurotower. La politica vede un segnale, i mercati leggono un sottotesto: ogni oscillazione intorno ai confini dell’indipendenza di Bankitalia viene scrutata con attenzione, specie in una fase in cui l’Italia deve finanziare un debito pubblico oltre i 3.000 miliardi e chiudere la manovra tra coperture e compromessi.

La dinamica non è nuova. Tentativi simili di ridefinire - almeno sul piano simbolico - la titolarità dell’oro erano già affiorati in passato, con diffidenza costante da parte europea. Oggi, con l’inflazione rientrata ma non domata e i bilanci dell’Eurosistema in riduzione, l’oro ha ripreso un ruolo di cuscinetto valutario e contabile: toccarne anche solo il perimetro lessicale, senza una finalità impeccabilmente dichiarata, rischia di accendere spie indesiderate.

Che cosa può succedere adesso

Una nuova riformulazione del ministero, con chiarimento puntuale della finalità. La strada più lineare è esplicitare che la norma ha valore esclusivamente «ricognitivo» o «simbolico», senza alcun effetto su gestione, bilancio e utilizzo delle riserve, e senza modifiche all’ordinamento vigente. Resta da capire se basti alla BCE. Oppure si potrebbe andare verso una rinuncia politica alla formula. Se il costo reputazionale supera il dividendo simbolico, la maggioranza potrebbe decidere di archiviare l’emendamento per non compromettere il percorso della manovra e per evitare di alimentare fraintendimenti sui mercati.

Infine si potrebbe arrivare a un compromesso tecnico: introdurre una premessa o una clausola di salvaguardia che ribadisca senza ambiguità il primato dei Trattati su gestione e detenzione, riconoscendo l’oro come «bene delle riserve nazionali» ma dentro l’alveo del Sistema delle banche centrali europee e del divieto di finanziamento monetario. Qui, però, la palla è tutta nel campo della negoziazione con la BCE e con Banca d’Italia.

Il nodo semantico che parla ai conti pubblici

«Appartiene al popolo» è una formula che schiaccia un tasto emotivo potente. Ma in economia politica le parole hanno conseguenze, eccome. Se «appartiene» è un richiamo civico, non cambia nulla; se, invece, quel lemma fosse invocato domani per rivendicare poteri di destinazione o per immaginare un uso fiscale dell’oro, lo scontro con i Trattati sarebbe frontale. La BCE non contesta una narrazione, contesta l’assenza di un perimetro giuridico chiaro. E finché quel perimetro non c’è, la bussola di Francoforte punta sempre a estirpare alla radice ogni dubbio.

Perché l’indipendenza conta (anche quando non si vede)

L’indipendenza delle banche centrali non è un tecnicismo per addetti ai lavori: è la garanzia che decisioni su riserve, politica monetaria e stabilità finanziaria non vengano piegate a esigenze di breve periodo. È, in definitiva, un ottimo affare per i contribuenti: riduce il premio al rischio, tutela il potere d’acquisto della moneta, evita scorciatoie che finiscono per costare care. In un contesto in cui l’Italia deve rifinanziare ogni anno centinaia di miliardi di debito, l’intreccio fra percezione dei mercati e autonomia di Bankitalia non è secondario. Ogni ambiguità normativa è un granello di sabbia nel meccanismo della fiducia.