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il fatto

“Non resterò a guardare”: Collins dell'Nba racconta la sua battaglia contro un glioblastoma al quarto stadio

L’ex centro Nba che ha fatto coming out affronta la partita più difficile

Laura Mendola

12 Dicembre 2025, 15:41

15:53

“Non resterò a guardare”: Jason Collins racconta la sua battaglia contro un glioblastoma al quarto stadio

Immaginate un uomo di 47 anni, abituato per mestiere a prendersi carico dei blocchi più duri, che una mattina d’agosto 2025 non riesce più a fare la valigia per andare agli Us Open. Non è una dimenticanza: è come se i comandi si fossero scollegati. Poche ore dopo, una Tac lo ferma dopo appena cinque minuti: qualcosa, nel suo cervello, è talmente evidente da non richiedere ulteriori immagini. Quell’uomo è Jason Collins, ex lungo capace di 13 stagioni in Nba, il primo giocatore dichiaratamente gay a scendere in campo in una delle quattro grandi leghe nordamericane. Oggi, Collins ha reso pubblico di avere un glioblastoma di stadio 4: “uno dei tumori cerebrali più aggressivi”, non operabile, con un’aspettativa media di 11-14 mesi con il solo “standard of care”. Ha già iniziato radioterapia e chemioterapia, sta assumendo bevacizumab (Avastin) e ha scelto di puntare su terapie sperimentali in una clinica di Singapore, nel tentativo di guadagnare tempo fino a un’immunoterapia personalizzata.

Il contesto umano e sportivo: una voce che ha già cambiato la storia

Per comprendere il peso di questa notizia bisogna ricordare chi è Jason Collins. Scelto con la numero 18 al Draft 2001, il centro di Stanford ha giocato con New Jersey Nets, Memphis Grizzlies, Minnesota Timberwolves, Atlanta Hawks, Boston Celtics, Washington Wizards e, infine, con i Brooklyn Nets, collezionando 830 presenze complessive e due Finals con i Nets (2002 e 2003). Ma il suo nome è diventato simbolo nel 2013, quando ha scelto di dichiararsi pubblicamente: un gesto che ha allargato il perimetro di ciò che è possibile nello sport professionistico, spostando in avanti il confine della discussione su inclusione e diritti civili. Oggi Collins è sposato con il produttore Brunson Green (maggio 2025, ad Austin): anche questo dettaglio, la normalità di una vita costruita con coraggio, entra di forza nella cronaca della sua malattia.

La diagnosi: “È arrivato incredibilmente in fretta”

Nella sua lunga testimonianza, affidata a ESPN, Collins racconta l’esordio dei sintomi: perdita di concentrazione, memoria a breve termine in crisi, facilità a “perdersi” nelle azioni quotidiane. La svolta ad agosto 2025, con quella TAC a UCLA che lo porta subito dallo specialista. La biopsia conferma il sospetto peggiore: glioblastoma multiforme “a farfalla”, che interessa entrambi gli emisferi, “impossibile da resecare senza conseguenze profonde sulla personalità”, perché l’area coinvolta sconfina nel lobo frontale, la regione che contribuisce a definire il nostro “io”. Un dato clinico spicca: il tumore mostra un tasso di crescita del 30%; senza interventi, la previsione iniziale è brutale — “sei settimane a tre mesi”.

https://www.lasicilia.it/news/italia-mondo/3009476/cose-il-glioblastoma-e-perche-e-cosi-difficile-da-trattare-ruolo-dei-marcatori-molecolari-e-terapia-emergenti.html

“Ho giocato contro Shaq”: il linguaggio del parquet per dire l’inenarrabile

Nella narrazione di Collins c’è un filo conduttore: la mentalità dell’atleta. “È come dire: ‘Stai zitto e vai a giocare contro Shaq’”, racconta, ricordando le sfide con Shaquille O’Neal “nel suo prime”. Una frase che sembra un paradosso e invece funziona come chiave: il glioblastoma è l’avversario più dominante e ingiocabile di sempre; non c’è tattica che lo riduca a un enigma semplice; al massimo si può contenere, rosicchiare possesso dopo possesso quei centimetri che separano la linea della vita dalla linea del campo.

C’è poi la dimensione affettiva, esplicitamente messa al centro: Brunson Green, la famiglia, gli amici, le visite “per dire addio” nei giorni più bui, e poi il ritorno alla luce, graduale, quando i farmaci cominciano a “spegnere” il rumore di fondo nella testa. Collins non evita le parole: “cancro”, “terminale”, “wild-type”, “mutazioni” che rendono il tumore più minaccioso. La scelta lessicale è coerente con la persona pubblica che è: la stessa che nel 2013 ha capito che nominare le cose è la prima forma di liberazione.

La sfera pubblica: quando raccontarsi è un atto di servizio

La decisione di parlare arriva dopo una prima, sobria nota di settembre 2025 in cui la famiglia aveva chiesto rispetto e privacy. Il racconto diretto di dicembre 2025 è un’altra cosa: vuole informare, sensibilizzare, e soprattutto rendere trasparente la traiettoria di una terapia complessa, costosa e non alla portata di tutti. Collins lo dice esplicitamente: la sua posizione economica gli consente di “andare ovunque nel mondo” per curarsi; se quello che sta facendo non dovesse bastare, gli basterebbe sapere di aver contribuito a migliorare il futuro di qualcun altro. È un tema scomodo ma necessario: l’equità di accesso alle cure e ai trial clinici resta uno dei nodi centrali dell’oncologia contemporanea.

Il valore simbolico per la NBA e oltre

La notizia ha scosso la comunità del basket. Non si tratta solo dell’ex giocatore dei Nets o del veterano da 13 stagioni: è la persona che ha reso più accogliente il perimetro emotivo e culturale della NBA. La sua scelta di raccontarsi oggi produce un effetto analogo: fa luce su una patologia poco conosciuta, toglie mistero alle parole difficili, ricorda che dietro i comunicati ci sono corpi reali, con le loro paure e la loro irriducibile volontà.