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il caso

Bielorussia, la scarcerazione che spiazza l’Europa: 123 prigionieri politici tornano liberi. Tra loro Kolesnikova e il Nobel Bialiatsky

Una mossa-lampo di Minsk, legata a trattative con gli Stati Uniti e motivata “anche da ragioni umanitarie”, riapre il dossier Lukashenko. Ma dietro la liberazione c’è un calcolo: alleviare le sanzioni sul settore dei fertilizzanti e riavviare i canali diplomatici

Redazione La Sicilia

13 Dicembre 2025, 16:57

Bielorussia, la scarcerazione che spiazza l’Europa: 123 prigionieri politici tornano liberi. Tra loro Kolesnikova e il Nobel Bialiatsky

“Sono libera”. È la scena – raccontata da chi l’ha vista in videochiamata – che molti attendevano dal 2020: la musicista e attivista Maria Kolesnikova, simbolo delle proteste post-elettorali a Minsk, è di nuovo fuori dal carcere. Con lei, tra i 123 prigionieri politici graziati dal presidente Alexander Lukashenko, c’è anche il dissidente più noto del Paese, il Nobel per la Pace Ales Bialiatsky, fondatore del centro per i diritti umani Viasna. Entrambi, riferiscono fonti dell’opposizione, hanno lasciato la Bielorussia poche ore dopo la scarcerazione, raggiungendo l’estero per motivi di sicurezza.

Secondo l’agenzia statale Belta, le grazie presidenziali rientrano in un pacchetto più ampio, frutto di negoziati con gli Stati Uniti: l’ufficio di Lukashenko le collega esplicitamente alla rimozione delle sanzioni americane sulla filiera dei fertilizzanti – in particolare sulla potassa – e alle “richieste di altri Capi di Stato”, citando anche motivazioni umanitarie. La sequenza è rapida: incontri a Minsk tra il capo dello Stato e l’inviato speciale americano John Coale, annuncio di Washington sul parziale allentamento delle misure, e poi la lista dei graziati, la più ampia degli ultimi anni.

Chi c’è nella lista: i nomi che pesano

Per la società civile bielorussa, il rilascio di Bialiatsky è un passaggio storico. Condannato nel 2023 a 10 anni con accuse considerate politicizzate da organizzazioni indipendenti, il leader di Viasna è da decenni la voce che documenta arresti arbitrari, torture, processi-farsa. La sua liberazione – insieme a quella di altri attivisti di Viasna, fra cui l’avvocato Uladzimir Labkovich – segnala che la pressione internazionale, fatta di sanzioni e di diplomazia operativa, può produrre risultati concreti.

A colpire è anche il nome di Maria Kolesnikova. Condannata nel 2021 a 11 anni in un processo chiuso, era diventata celebre nel settembre 2020 quando, per evitare la deportazione forzata, strappò il passaporto alla frontiera. La sua scelta di restare in Bielorussia, pur sapendo cosa rischiava, l’ha resa una figura morale per il movimento nato intorno a Sviatlana Tsikhanouskaya.

Nell’elenco, stando a fonti indipendenti e testate internazionali, compaiono anche altri oppositori di rilievo come l’ex banchiere e candidato presidenziale Viktar Babaryka, il giurista Maxim Znak, giornalisti e attivisti che avevano scontato anni di isolamento. Per alcuni di loro, il rilascio è arrivato con un vincolo: lasciare immediatamente il Paese. Una dinamica che l’opposizione definisce “deportazione forzata”, utile al regime per alleggerire il dossier dei prigionieri senza riaprire davvero lo spazio pubblico interno.

La cornice geopolitica: tra potassa, sanzioni e ricalcolo strategico

La mossa di Lukashenko va letta dentro una cornice economico-strategica. La potassa – componente chiave dei fertilizzanti – è uno dei pilastri dell’export bielorusso. Le restrizioni occidentali hanno colpito duramente il comparto (con effetti a catena sulle entrate in valuta e sul bilancio statale), spingendo Minsk a cercare un varco per allentare l’assedio. L’annuncio dell’inviato USA John Coale sullo sblocco delle misure americane legate alla potassa è stato presentato come parte dello “scambio” che ha portato alla liberazione dei 123 detenuti.

Dietro c’è anche la partita delle relazioni con l’Occidente: dopo anni di isolamento per la repressione interna e per il sostegno logistico alla guerra russa in Ucraina, Minsk tenta una faticosa normalizzazione, bilanciando la dipendenza da Mosca con aperture mirate verso Washington e, in prospettiva, verso l’Unione Europea. Non è un riallineamento, ma un calcolo: usare il dossier umanitario per scambiare sanzioni con grazia e tornare a respirare economicamente.

Il racconto ufficiale di Minsk

Il messaggio del palazzo presidenziale è calibrato: si parla di “principi umanitari”, di “valori familiari”, di volontà di “stabilizzare la regione europea” e di accelerare la “dinamica positiva” con i partner. La narrazione insiste anche su un dettaglio politico: la decisione sarebbe maturata “nell’ambito degli accordi raggiunti con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e su sua richiesta”, in relazione al superamento delle sanzioni sull’industria dei fertilizzanti introdotte dalla precedente amministrazione. Un modo per ancorare l’operazione a un canale di dialogo personale con la Casa Bianca, utile sul piano interno e internazionale.

Le voci dell’opposizione: sollievo, ma nessun assegno in bianco

Il fronte democratico in esilio accoglie la notizia con emozione e prudenza. Sviatlana Tsikhanouskaya parla di un passo atteso “da anni”, ma richiama la comunità internazionale alla cautela: non scambiare la liberazione – sacrosanta – con una normalizzazione che avvenga senza riforme, cessazione della repressione e riabilitazione giudiziaria delle vittime. In più, sottolinea un punto scomodo: molti dei liberati sarebbero stati costretti a lasciare la Bielorussia subito dopo l’uscita dal carcere, a conferma che “non è vera libertà” se la cittadinanza resta sospesa e il ritorno a casa è proibito.

Il conteggio dei detenuti politici, pur in calo dopo quest’ultima tornata, resta drammatico: secondo Viasna, in prigione rimangono ancora oltre 1.200 persone per motivi politici. Un dato che impedisce a questa scarcerazione di essere descritta come “svolta”, e che spiega perché Tsikhanouskaya e altri leader insistano nel chiedere la liberazione di “tutti e tutte, senza eccezioni”.

Un Paese che rilascia e reprime: il doppio binario del regime

Negli ultimi 18 mesi, la Bielorussia ha alternato scarcerazioni a nuove condanne, spesso per reati d’opinione – post sui social, donazioni a media indipendenti, interviste a testate non registrate. Le liberazioni sono avvenute per ondate, a volte accompagnate da accordi su esili forzati o su trasferimenti verso Lituania, Polonia o Ucraina, con il coinvolgimento delle diplomazie di Paesi vicini e di Washington. Il messaggio del potere è chiaro: l’apertura è selettiva e reversibile; l’iniziativa resta saldamente nelle mani della presidenza, che dispone dei corpi e delle carceri come leve negoziali.

Questo doppio binario – umanitario a giorni alterni, repressivo nella prassi – è la vera cifra del momento bielorusso. Da un lato, Lukashenko cerca legittimità esterna, valuta margini di diversificazione geopolitica e prova a monetizzare il dossier umanitario. Dall’altro, non mette in discussione gli strumenti del suo potere: sicurezza interna militarizzata, giustizia piegata al controllo, media allineati. È il motivo per cui gli analisti invitano a leggere la scarcerazione come gesto politico e non come inizio di una transizione.

Kolesnikova e Bialiatsky, simboli che parlano al mondo

Sul piano simbolico, la scelta dei nomi dice molto. Bialiatsky, Nobel 2022, è il riferimento dei prigionieri di coscienza bielorussi e una figura rispettata nei network internazionali dei diritti umani. La sua presenza in libertà, anche se in esilio, restituisce voce a Viasna in un momento cruciale: documentare chi è ancora dentro, ricostruire casi giudiziari, sostenere le famiglie.

Maria Kolesnikova resta l’immagine del “no” pubblico alla deportazione: lo strappo del passaporto al confine è per molti bielorussi il gesto che ha rotto l’inerzia della paura. Rivederla, oggi, significa anche riannodare un racconto interrotto dal silenzio di tre anni di colonia penale. La sua voce – che tornerà a farsi sentire – potrà aiutare a tenere accesi i riflettori su chi non è uscito.

La variabile russa e il rischio di over-reading

C’è però la variabile Russia. La Bielorussia resta un alleato chiave di Mosca, che nel 2022 ha usato il territorio bielorusso come retrovia nell’invasione dell’Ucraina. Leggere la scarcerazione come segnale di “disancoraggio” dal Cremlino sarebbe prematuro. Piuttosto, siamo davanti a un tentativo di manovra: ottenere spazi di autonomia tattica sul fronte occidentale senza rompere il vincolo strategico con Putin. È un equilibrio instabile, e sarà la cadenza – e la qualità – dei prossimi rilasci a dire se c’è un disegno o se siamo all’ennesima operazione di immagine.

Le prossime ore: arrivi, accoglienza, assistenza

Alcuni dei liberati sono già stati accolti in Lituania e Polonia, altri sono transitati per l’Ucraina. Nei Paesi di arrivo si attivano reti di supporto medico, legale e psicologico. La priorità è curare i segni di anni di detenzione spesso in condizioni dure, ristabilire contatti con le famiglie, ricostruire documenti e status legali. Le cancellerie occidentali, intanto, mettono in calendario nuove tornate negoziali: se la logica dello scambio ha funzionato una volta, potrebbe funzionare ancora. Ma – come ripetono le voci dell’opposizione – non può essere l’unica via: la dignità dei cittadini non è merce di scambio.