LA RICOSTRUZIONE
Da “Gaza Riviera” alla sicurezza sul campo: cosa c’è davvero nella fase due del piano USA e nel controverso “Project Sunrise”
Una proposta scintillante di resort e alta tecnologia, un cantiere di macerie e diritti irrisolti: la fase due promessa da Washington mette insieme sicurezza, governance provvisoria e ricostruzione, ma sul tavolo restano nodi durissimi su accuse di violazioni, restituzione delle spoglie e accesso agli aiuti. Intanto “Project Sunrise” immagina una Gaza da 112 miliardi di dollari che molti considerano irrealistica — o prematura.
La scena è questa: pioggia torrenziale, tende allagate, bulldozer che spingono via detriti da una strada costiera senza più marciapiedi. Qualcuno alza lo sguardo e immagina, sulle stesse coordinate, un lungomare di vetro e acciaio, con resort di lusso, treni veloci e reti digitali ottimizzate dall’IA. L’istantanea non è fantasia: scorre dentro una presentazione in 32 slide che circola nelle capitali, e che battezzano “Project Sunrise”. Il contrasto tra realtà e rendering è l’incipit più fedele per leggere la partita che si apre con la “fase due” del piano statunitense per Gaza: un passaggio che promette sicurezza, governance provvisoria e ricostruzione, ma che arriva con alle spalle una “fase uno” ancora incompiuta nelle sue questioni più delicate: le accuse di violazioni del diritto internazionale, la restituzione delle spoglie e, soprattutto, l’accesso effettivo agli aiuti.
Fase due: ciò che Washington dice (e ciò che manca)
La fase due delineata dagli Stati Uniti mira a tenere insieme tre cantieri interdipendenti:
- la costruzione di un dispositivo di sicurezza capace di reggere un cessate il fuoco fragile e proteggere i corridoi umanitari;
- l’avvio di una governance provvisoria con tecnocrati palestinesi e un board internazionale di garanzia;
- la scalabilità di una ricostruzione che parta dai servizi essenziali, per arrivare — in seguito e solo se le condizioni lo permetteranno — a investimenti strutturali.
Nelle intenzioni, entra in gioco una Forza Internazionale di Stabilizzazione con mandato definito e regole d’ingaggio chiare, affiancata da un dispositivo civile di gestione dei fondi e di controllo dei progetti. La bozza in discussione prevede una cabina di regia con il coinvolgimento di Nazioni Unite, Banca Mondiale e principali donatori regionali, e un fondo fiduciario dedicato alla ricostruzione. L’obiettivo politico dichiarato è consolidare la tregua, impedire il riarmo dei gruppi armati e rimettere in piedi scuole, ospedali, reti idriche ed elettriche prima che le piogge facciano il resto.
Ma il ponte tra dichiarazioni e realtà resta lungo. Il disarmo di Hamas — posto dagli USA e da Israele come condizione — non ha ancora trovato una procedura condivisa, e la composizione della governance provvisoria è materia per negoziati che si annunciano complessi. Sullo sfondo, la disponibilità delle truppe per la forza internazionale e la definizione del suo mandato (solo protezione di siti e convogli? sicurezza di aree urbane? gestione dei confini?) sono dossier aperti. E ogni funzione di sicurezza senza un quadro legale robusto rischia di scontrarsi, sul terreno, con realtà mutevoli.
Fase uno: i tre nodi che non si sono sciolti
Se la fase due pretende basi solide, la fase uno ne ha fornite solo in parte. Tre questioni restano centrali e irrisolte.
- Accuse di violazioni del diritto internazionale. La Commissione d’Inchiesta del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, guidata da Navi Pillay, ha attribuito a Israele gravi responsabilità per atti che la Commissione qualifica come crimini di guerra e — nelle ultime analisi — come “atti genocidari”, accuse respinte da Gerusalemme. Parallelamente, la Corte penale internazionale mantiene aperta l’indagine su presunti crimini commessi da tutte le parti. Sono procedimenti che non si chiudono con un cessate il fuoco e che influenzano la cornice politica della ricostruzione. Finché non matureranno binari chiari per la responsabilità e la verità giudiziaria, la fase due viaggerà dentro un contesto di contestazione incrociata.
- Restituzione delle spoglie. Dopo gli scambi di ostaggi e detenuti, i dossier sulle spoglie ancora trattenute e sulle persone scomparse incombono sui negoziati. La restituzione dei resti — da entrambe le parti — è elemento di umanità e di fiducia minima per qualunque percorso di riconciliazione; ritardi e accuse reciproche hanno avvelenato il clima, con implicazioni dirette sulla riapertura dei valichi e sul ritmo degli aiuti.
- Accesso agli aiuti. Il flusso umanitario resta insufficiente. Vincoli burocratici, ispezioni ridondanti, blocchi a materiali “dual use” e detriti che occludono le vie di accesso rallentano convogli e rifornimenti. Le agenzie ONU denunciano l’intermittenza dell’accesso e lo stato semicollassato del sistema sanitario. Senza accesso prevedibile, sicuro e massivo, parlare di ricostruzione è esercizio retorico.
“Project Sunrise”: visioni, numeri e punti ciechi
Accanto alla cornice istituzionale della fase due, s’è affacciato “Project Sunrise”, una proposta in 32 slide che immagina una trasformazione radicale della Striscia in 10 anni, con un valore aggregato di 112,1 miliardi di dollari. Tra i promotori e volti di riferimento spiccano Jared Kushner e Steve Witkoff — quest’ultimo indicato come inviato per il Medio Oriente — insieme a funzionari dell’Amministrazione USA.
Gli elementi chiave:
- Finanza. Gli USA si offrono come “anchor” per quasi 60 miliardi di dollari tra sovvenzioni (circa 41,9 miliardi) e garanzie su nuovo debito (circa 15,2 miliardi) nella prima decade del piano; il resto arriverebbe da donatori e investitori privati. Nel secondo decennio, il piano ipotizza una riduzione dei costi grazie all’“autofinanziamento” prodotto dal rilancio economico e dalla monetizzazione del 70% della costa a partire dall’anno dieci, con ritorni prospettici fino a 55 miliardi.
- Urbanistica. Il documento delinea una nuova capitale amministrativa, “New Rafah”, per oltre 500.000 residenti con più di 100.000 unità abitative, 200 scuole, almeno 75 strutture sanitarie e 180 luoghi di culto e centri culturali. La costa verrebbe ridisegnata in chiave turistica e immobiliare, con hotel, marina, quartieri smart, alta velocità e infrastrutture digitali affidate a un Chief Digital Office dedicato.
- Condizionalità. La realizzazione è esplicitamente subordinata alla demilitarizzazione delle milizie, alla sicurezza dei cantieri e alla presenza di una governance in grado di firmare contratti, vigilare su appalti e rispondere ai cittadini.
La proposta colpisce per l’ambizione e la velocità di elaborazione — si parla di 45 giorni per la prima bozza — ma lascia domande decisive senza risposta:
- Chi paga davvero? Oltre alla quota USA, non c’è un elenco vincolante di donatori. I contatti con Egitto, Turchia e monarchie del Golfo non si sono ancora tradotti in impegni firmati. La Banca Mondiale può facilitare strumenti, ma ha bisogno di un mandato politico e di garanzie puntuali.
- Dove vivranno gli sfollati? Tra 2,0 e 2,3 milioni di persone sono senza casa o in alloggi inagibili. La bozza non chiarisce come e dove collocare la popolazione durante cantieri pluriennali che coinvolgono infrastrutture, coste, interi quartieri. Senza un piano alloggiativo intermedio realistico, qualsiasi rendering è vapore.
- Quale timeline? Con 58–68 milioni di tonnellate di macerie stimate e ordigni inesplosi diffusi, i tempi tecnici di sgombero, bonifica e ricostruzione si misurano in anni. La gestione dei rifiuti edili, se ben organizzata, può diventare risorsa (materiale frantumato per sottofondi stradali, barriere, piattaforme), ma richiede attrezzature, energia, logistica e accesso sicuro.
- Quale legalità? A chi rispondono i direttori di progetto? A quale diritto dei contratti e a quali tribunali si ricorre in caso di contenzioso? Senza struttura legale e autorità riconosciuta, i capitali si fermano.

La mappa dei rischi: sicurezza, diritto e percezioni
In ogni processo di ricostruzione post‑bellica, tre rischi sono esistenziali:
- Rischio sicurezza. Senza cessate il fuoco stabile, controllo delle armi e gestione dei confini, il cantiere si ferma. La stessa forza internazionale ipotizzata deve ottenere regole d’ingaggio condivise e copertura politica regionale.
- Rischio diritto. Le indagini internazionali su presunti crimini di guerra e violazioni gravi — inclusa la dimensione genocidaria evocata da organismi ONU — non sono un rumore di fondo: impattano su sanzioni, forniture, assicurazioni, partnership pubblico‑private. Le contestazioni reciproche, aggravate da episodi violenti anche dopo il cessate il fuoco, alimentano una volatilità giuridica che scoraggia gli investitori.
- Rischio percezione. Per i palestinesi sfollati e per chi ha perso familiari o la casa, l’idea di una “Riviera” può apparire provocatoria se non accompagnata da verità, giustizia, alloggi e servizi. Senza consultazione pubblica, partecipazione e trasparenza su espropri, titolarità e compensazioni, qualsiasi grande progetto rischia di naufragare nel rigetto sociale.
Cosa servirebbe davvero perché la fase due stia in piedi
Per trasformare promesse in fatti, la check‑list è stringente:
- Valichi e accesso. Garanzie scritte per accesso umanitario e logistico: flussi prevedibili di carburante, macchinari, materiali da costruzione, attrezzature medicali e telecomunicazioni. La lista dei materiali “dual use” va chiarita e gestita in modo trasparente.
- Debris & UXO. Un piano operativo per macerie e bonifica ordigni con cronoprogrammi pubblici, target settimanali e monitoraggio indipendente. Senza strade sgombre e siti sicuri, nessun cantiere parte davvero.
- Case prima dei resort. Un programma abitativo transitorio: moduli abitativi, affitti sostenuti, riabilitazioni rapide dove possibile, con priorità a scuole, ospedali, reti idriche e fognarie. Il turismo — se mai — viene dopo.
- Governance con deleghe chiare. La struttura provvisoria deve poter firmare, pagare, controllare e rispondere. Servono procure, audit, trasparenza sugli appalti, un registro pubblico dei contratti e meccanismi antifrode.
- Fondo fiduciario blindato. Un trust multilaterale con regole di spesa, priorità sociali vincolanti, clausole di sospensione in caso di violazioni dei diritti o ostacoli ostativi all’accesso degli aiuti.
- Sicurezza multilivello. Accordo su zone sicure, percorsi protetti, compiti e limiti della forza internazionale, integrazione con polizia locale formata e monitoraggio terzo su incidenti e rimedi.
I numeri che non si possono ignorare
- Popolazione sfollata: fra 1,5 e oltre 2 milioni di persone. La priorità è abitare e curare, non inaugurare skyline.
- Macerie: stime tra 57,5 e 68 milioni di tonnellate. Il loro trattamento è la precondizione fisica della ricostruzione.
- Ospedali: “parzialmente funzionanti” nella migliore delle ipotesi, con migliaia di pazienti in attesa di evacuazione medica.
- Scuole: una quota enorme di edifici scolastici danneggiati o distrutti; la didattica sopravvive in spazi temporanei.
- Aiuti: convogli spesso ritardati o respinti, stoccaggi pieni, percorsi interni interrotti da collassi strutturali e allagamenti.
“Gaza Riviera”: simbolo o distrazione?
Le visioni contano in politica quanto le procedure. L’idea della “Riviera” può essere letta in due modi: come un orizzonte capace di attirare capitali e immaginare futuro, oppure come una distrazione che sposta l’attenzione dal qui e ora — acqua potabile, sanità, tetti, sicurezza legale — verso un domani che poggia su troppe incognite. In assenza di garanzie di diritti e rimedi reali per le famiglie colpite, l’economia dell’intrattenimento rischia di essere percepita come una sovrastruttura coloniale, non come motore di rinascita.

Per questo, la vera prova della fase due non sarà la brillantezza dei render, ma la concretezza dei chilometri di tubazioni posate, delle classi riaperte, delle sale operatorie alimentate da generatori stabili, dei quartieri bonificati e praticabili, dei registro dei contratti consultabile da chiunque. Solo così, passo dopo passo, anche un progetto ambizioso come Project Sunrise potrebbe trovare un terreno politico e sociale meno scivoloso.
Cosa guardare nelle prossime settimane
- La definizione del mandato della forza internazionale e i paesi pronti a contribuire con truppe e fondi.
- La lista dei donatori che metteranno denaro fresco in un trust con regole verificabili.
- Il calendario delle aperture dei valichi, il volume degli aiuti giornalieri e l’accesso ai materiali critici (sanità, telecom, energia).
- I primi appalti: criteri, beneficiari, tempi, clausole sociali e ambientali.
- I passi concreti sulla restituzione delle spoglie e sui meccanismi di verità: senza gesti irreversibili su questo fronte, la fiducia resterà un miraggio.
Se la fase uno ha mostrato che si può fermare il fuoco — almeno in parte — ma non ancora sciogliere i nodi, la fase due sarà giudicata sulla capacità di produrre diritti e servizi, non slogan. La formula è nota ma sempre difficile: senza sicurezza non c’è ricostruzione; senza diritti non c’è investimento; senza case non c’è turismo. E senza trasparenza non c’è fiducia.
In fondo, tra il fragore delle onde e quello dei bulldozer, la domanda è una sola: Gaza rinascerà come città per chi ci vive o come vetrina per chi la visita? La risposta non sta nelle slide: sta nelle scelte delle prossime settimane e nella serietà con cui verranno rispettati i passaggi più scomodi — accesso agli aiuti, responsabilità legali, restituzione delle spoglie, coinvolgimento reale della popolazione. Solo allora, le immagini digitali potranno cominciare a somigliare alla realtà.