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“Assassino”: la parola che ha gelato l’AmericaFest. E che racconta molto di Nicki Minaj, del trumpismo e della nuova destra giovanile

Un lapsus clamoroso sul palco con Erika Kirk, tra standing ovation e imbarazzo, riaccende i riflettori sulla deriva iperpolitica dello star system e sulle fratture di un movimento in cerca di eredi e di una narrazione

Redazione La Sicilia

22 Dicembre 2025, 07:24

08:20

“Assassino”: la parola che ha gelato l’AmericaFest. E che racconta molto di Nicki Minaj, del trumpismo e della nuova destra giovanile

La scena è un fermo immagine che brucia: luci sparate, folla in visibilio a Phoenix, un palco immenso con il logo di Turning Point USA e, al centro, la superstar del rap Nicki Minaj che prende fiato, sorride, poi inciampa su una parola. “Avete incredibili modelli… come il nostro affascinante presidente… e come l’… assassino J.D. Vance, il nostro vicepresidente”. Silenzio. Una mano sulla bocca, un brusio nervoso, qualche risata strozzata. Accanto a lei, Erika Kirk—vedova di Charlie Kirk, il fondatore di Turning Point ucciso a settembre—le poggia una mano sul braccio e la assolve in diretta. La gaffe, avvenuta ad AmericaFest il 21 dicembre 2025 a Phoenix, Arizona, dura un battito di ciglia. Ma dice molto: del momento politico americano, del rapporto fra celebrity e potere, della metamorfosi di Minaj e dell’identità di una destra giovanile che, senza il suo leader, cerca una bussola.

Un incidente rivelatore

Sul palco della quattro-giorni di AmericaFest—la convention di Turning Point USA nata per galvanizzare i giovani conservatoriNicki Minaj non era una comparsa. Era l’ospite-simbolo di una strategia: parlare a un pubblico pop, attrarre nuovi consensi, dare un tono di “coolness” a un movimento che costruisce identità anche per contrasto. Minaj stava spiegando il suo invito ai “giovani uomini” a prendere esempio da Donald Trump e da J.D. Vance quando il lapsus ha fatto irruzione, stridendo con la memoria ancora viva dell’assassinio di Charlie Kirk in settembre 2025 durante un evento in un campus dello Utah. Erika Kirk, oggi al timone dell’organizzazione, ha scelto l’empatia: “Ti amo. So cosa c’è nel tuo cuore”, l’ha rassicurata, riportando la sala su binari celebrativi.

L’episodio, comunque, non è rimasto confinato alle mura del Phoenix Convention Center. Il White House media team ha rilanciato i passaggi di elogio a Trump e Vance; Minaj ha ripostato con toni affettuosi. In una stagione in cui ogni frame diventa titolo, l’“assassino” non ha avuto il potere di sabotare la narrazione: semmai l’ha resa più virale.

Chi è Erika Kirk e cosa rappresenta oggi Turning Point

Da quando Charlie Kirk è stato ucciso—un trauma politico, mediatico e organizzativo—il compito di traghettare Turning Point USA è ricaduto su Erika Kirk. Il board l’ha eletta alla guida in settembre 2025, e AmericaFest 2025 è stato presentato esplicitamente come un tributo al fondatore e al suo progetto: fare di TPUSA “il più grande movimento del Paese”. Numeri e ambizione non mancano: AmericaFest si è consolidato dal 2021 come uno dei raduni di riferimento della destra giovanile; l’edizione 2025 (dal 18 al 21 dicembre) ha riunito un parterre eterogeneo che va dai conduttori più noti del mondo conservatore a figure istituzionali, con J.D. Vance e altri speaker di primo piano.

Anche l’ecosistema mediatico “amico” ha mostrato crepe e competizioni: scambi graffianti fra star come Tucker Carlson e Ben Shapiro hanno messo in piazza differenze tattiche e culturali, magari fisiologiche in una macchina politica sempre più grande e contendibile. AmericaFest ha fatto da palcoscenico a queste tensioni, segnalando che dopo Kirk la leadership è più diffusa e, di conseguenza, più litigiosa.

Minaj e la svolta: dal dissenso a Trump all’asse con la Casa Bianca

Per comprendere l’impatto del lapsus bisogna ricostruire la traiettoria di Nicki Minaj. Artista globalissima (dodici nomination ai Grammy), nel 2018 criticò duramente la “tolleranza zero” dell’amministrazione Trump sull’immigrazione, raccontando pubblicamente la propria storia di bambina arrivata negli Stati Uniti e schierandosi contro le separazioni familiari al confine. Nel 2021 finì al centro del dibattito sulle vaccinazioni anti-Covid per posizioni scettiche rilanciate dai social, diventando involontariamente un totem per la galassia “anti-establishment”. Oggi, nel secondo mandato di Trump, Minaj compie un salto: appoggia apertamente il presidente e il vicepresidente, sale sui palchi conservatori, rivendica il diritto di “cambiare idea”.

Il tassello decisivo arriva fra ottobre e novembre 2025: Minaj riprende e rilancia su X un post di Trump su presunte persecuzioni sistematiche dei cristiani in Nigeria, ringraziando la Casa Bianca e chiedendo preghiere “per ogni cristiano perseguitato”. Poco dopo parla a un evento presso la Missione USA alle Nazioni Unite a New York, insieme all’ambasciatore Mike Waltz e a leader religiosi, invocando più attenzione internazionale sulla sicurezza dei fedeli cristiani nel Paese africano. Il suo engagement—milioni di follower, una platea trasversale—diventa una risorsa politica.

Nigeria: una causa facile da raccontare, difficile da spiegare

La Nigeria di Minaj è soprattutto quella delle chiese incendiate, dei sacerdoti rapiti, delle famiglie sfollate: immagini che colpiscono e che, purtroppo, non sono infondate. I dati e le testimonianze di ONG, parrocchie e diocesi raccontano una violenza endemica che tocca comunità cristiane e musulmane, spesso alimentata da conflitti locali su terre, acqua e risorse, dal banditismo, dal jihadismo di Boko Haram e da milizie nel Middle Belt. Gli esperti invitano a non ridurre il quadro a una sola matrice religiosa: l’intreccio fra criminalità, scontri identitari e povertà rende la narrativa “cristiani vs islamisti” parziale e politicizzata. L’uscita di Trump che il 31 ottobre 2025 ha definito la Nigeria “Paese di particolare preoccupazione” ha scatenato polemiche anche per la presunta forzatura delle procedure: di norma la designazione passa per il vaglio di USCIRF e Dipartimento di Stato.

In questo clima, Minaj—che al Palazzo di Vetro ha ringraziato Trump per aver “prioritizzato” il dossier—ha avuto il merito di riportare l’attenzione internazionale sul tema; al tempo stesso è stata accusata da critici e fact-checker di aver sposato numeri e cornici interpretative discutibili, con il rischio di alimentare una lettura univoca. Una tensione che la stessa artista sembra riconoscere quando parla di “non voler dividere, ma unire” di fronte a chiunque subisca persecuzioni.

Il palco di Phoenix: perché il lapsus conta

L’errore linguistico—“assassino” riferito a J.D. Vance—è clamoroso perché avviene davanti alla vedova di un leader ucciso da un attentatore; ed è rivelatore perché spiega la fragilità del patto fra politica e celebrità. Un endorsement funziona finché regge il filo della retorica; un inciampo lo spezza e svela il laboratorio che c’è dietro: costruzione di messaggio, ricerca di simboli, pedinamento del trend. Qui la risposta della platea—prima gelo, poi applausi—dice del rapporto affettivo che Turning Point sta cercando di rinsaldare con i suoi: la comunità “perdona” chi sbaglia, purché lo sbaglio serva a ribadire appartenenza.

La stessa Minaj, pochi istanti dopo, ha ripreso il filo, insistendo sui “valori maschili” e attaccando il governatore della California Gavin Newsom con il nomignolo sprezzante caro a Trump. La cornice è coerente con la geopolitica culturale della nuova destra: identità sessuali e scolastiche come terreno di scontro, recupero di un’“energia maschile” intesa come reazione a quella che viene percepita come la pedagogia “woke”. Per i fan di Minaj, abituati al suo uso di maschere, alter ego, iperboli, il passaggio non è privo di continuità; per buona parte dell’industria culturale mainstream, è una dichiarazione di transito sull’altra sponda.

AmericaFest 2025: un rito di passaggio per la destra giovanile

Senza Charlie Kirk, AmericaFest diventa non soltanto una kermesse, ma un test di successione. Il movimento di Turning Point USA—nato nel 2012 per colonizzare i campus e opporsi alla cultura liberal—si ritrova a dover convertire un culto del fondatore in una struttura di potere capace di governare un’area politica che va dalla base “MAGA” fino all’istituzionale. In platea si contano decine di migliaia di partecipanti; sul palco si alternano figure mediatiche che da anni costruiscono narrazioni alternative a quelle dei network tradizionali, e insieme segnano confini e scomuniche reciproche. Che Minaj sia apparsa proprio qui non è un caso: è il certificato d’adozione pop di una causa politica.

E le spigolosità non mancano. Le scaramucce pubbliche fra Shapiro e Carlson, gli affondi su antisemitismo e confini del “dicibile”, gli appelli all’unità di figure istituzionali, mostrano una destra in movimento: potente, mediatizzata, ma attraversata da rivalità. In questo quadro, J.D. Vance ha scelto toni concilianti sulla necessità di evitare “purezza ideologica” e “linee rosse” interne, consapevole che la maggioranza si costruisce sommandone molte (e talvolta indigeste) minoranze.

L’altra faccia dell’endorsement: cosa guadagna Minaj, cosa rischia

Per Nicki Minaj, il ritorno sull’investimento politico è immediato: visibilità fuori dalla bolla musicale, capitalizzazione del proprio brand in un segmento demografico diverso, influenza sulla conversazione pubblica. Ma il conto arriva altrove: parte della fanbase storica si sente tradita, alcuni colleghi la criticano apertamente, i media progressisti ne analizzano la svolta con sospetto. L’artista, dal canto suo, risponde entrandoci dentro: “Siamo i cool kids”, dice sul palco con Erika Kirk. E improvvisa una filosofia della libertà d’opinione che intercetta il mood di un’America stanca di schieramenti morali rigidi.

Questa “disintermediazione” ridisegna anche il rapporto fra la Casa Bianca e le star. L’operazione Nigeria lo dimostra: un presidente che rilancia un tema cardine per l’elettorato evangelico e cattolico conservatore; una celebrity che lo amplifica in sedi prestigiose; un circuito mediatico pronto a farne materia di identità. Gli attori istituzionali nigeriani hanno reagito con fastidio, chiedendo di non ridurre un conflitto complesso a propaganda religiosa. È il cortocircuito del nostro tempo: geopolitica e pop culture si incontrano nel microfono di una rapper.

La lezione politica di un lapsus

A ben vedere, l’“assassino” scappato a Nicki Minaj non è solo una disavventura. È un promemoria su quanto il linguaggio sia potente e fragile, soprattutto quando il dolore è prossimo: una comunità—quella di Turning Point—ha subito pochi mesi fa una perdita violenta; la parola sbagliata riapre ferite. La reazione di Erika Kirk—compassione e spinta a proseguire—suggerisce la direzione scelta: trasformare il lutto in missione, custodire la memoria di Charlie e, nello stesso tempo, allargare la base, anche a costo di gestire incidenti di percorso.

Per la destra giovanile americana, la partita è più grande. AmericaFest non è solo un evento; è un misuratore del potere di Turning Point nei campus e nelle periferie digitali. La presenza di Minaj certifica che la battaglia culturale si combatte a colpi di meme, ospitate inattese e retoriche identitarie. Ma al fondo restano domande sostanziali: qual è il confine fra denuncia e semplificazione quando si parla di cristiani perseguitati? Come si tiene insieme un movimento che, senza il suo fondatore, mostra scollature ideologiche? Che ruolo vorrà giocare J.D. Vance—oggi vicepresidente, domani forse candidato—nel definire la grammatica di questo campo? Domande che resteranno aperte oltre il boato di una gaffe.

Cosa resta dopo Phoenix

Resta l’immagine di Nicki Minaj che—dopo il vuoto d’aria—ritrova la voce e rilancia i suoi “valori”, fra fede, identità e ordine. Restano i video rilanciati dalla Casa Bianca e dai media di area, pronti a inglobare l’incidente nella narrazione dell’artista coraggiosa che “non si piega”. Resta una Erika Kirk abile nel trasformare l’imbarazzo in un momento di comunità, stringendo il movimento attorno al ricordo di Charlie e all’obiettivo di crescere ancora. E resta, soprattutto, la conferma che la politica americana del 2025 si gioca sempre più nei luoghi dell’intrattenimento, dove una parola di troppo può cambiare l’aria di una sala, ma non per forza il verso di una storia.