New York
“Gesù è palestinese”: il cartellone che accende il Natale a Times Square
Un messaggio in luci verdi nel cuore della Grande Mela riapre antiche domande e nuove fratture: chi rivendica, chi contesta, chi ricorda che Betlemme oggi sta oltre un muro. E perché quel claim, nella stagione dei record di presenze, è tutto fuorché casuale
Tra i maxi‑schermi dove di solito scorrono sneakers e blockbuster, un pannello digitale si accende su fondo acceso e un carattere cubitale: “Gesù è palestinese”. Sul retro, una formula più canonica: “Merry Christmas”. La folla rallenta, si ferma, si divide. Qualcuno applaude, molti scuotono la testa; altri alzano il telefono, pronti a rilanciare nel flusso infinito dei social. L’insegna è stata acquistata dall’American‑Arab Anti‑Discrimination Committee, storica organizzazione arabo‑americana per i diritti civili con sede a Washington, che da inizio anno affitta spazi pubblicitari nella piazza più fotografata del mondo con messaggi a rotazione. A spiegare il senso dell’operazione è il direttore esecutivo nazionale, Abed (Adeb) Ayoub: il filo conduttore, dice, è “America First”, inteso come ricerca di un terreno comune tra arabi/musulmani e cristiani negli Stati Uniti. Una scommessa sull’intersezione delle identità, più che sul loro scontro. Eppure le reazioni, riportate da testate locali e siti di costume, sono in prevalenza critiche: “divisivo”, “infiammatorio”, “fuori luogo a Natale”, dicono diversi passanti intervistati.
Chi c’è dietro il messaggio e perché ora
Secondo l’ADC, l’idea di occupare Times Square con claim legati alla Palestina non è nuova: durante il 2025 l’organizzazione ha già promosso campagne sulla memoria, sulla diaspora e, in autunno, anche iniziative in ambito sportivo legate al calcio europeo. L’uso del palcoscenico di Times Square non è casuale: qui transitano mediamente centinaia di migliaia di persone al giorno, e il moltiplicatore social può trasformare un loop di 10 o 15 secondi in una discussione globale. I costi variano in modo drastico: dai pacchetti entry‑level da centinaia di dollari al giorno su schermi secondari fino a tagli da decine di migliaia per i formati premium e i takeover. In altre parole, non serve un budget da multinazionale per lasciare un segno — almeno per un giorno.
Nel caso del claim “Gesù è palestinese”, l’ADC ha scelto una grafica essenziale su sfondo acceso, alternata alla formula augurale “Buon Natale/“Merry Christmas” e, in alcune varianti del circuito, a un pannello con un versetto del Corano dedicato all’annuncio della nascita di Gesù (Sura 3:45), a sottolineare il riferimento interreligioso caro all’organizzazione.
La miccia: cosa vuol dire dire “Gesù è palestinese”
Gesù nacque — secondo la tradizione cristiana — a Betlemme, città oggi in Cisgiordania; all’epoca, il territorio rientrava nella sfera amministrata da Roma tra Giudea e Galilea. Il termine “Palestina” esisteva già nella geografia greca come “Palaistínē” (eredità lessicale antica testimoniata da Erodoto nel V secolo a.C.), ma la ridenominazione formale della provincia romana in “Syria Palaestina” avverrà solo dopo la rivolta di Bar Kokhba nel 135 d.C.. Dunque: sul piano filologico, il lemma era in uso in senso regionale ben prima di Gesù; sul piano amministrativo romano, la denominazione arriverà dopo. Il livello identitario‑religioso: Gesù è un ebreo della Galilea del I secolo, ma è anche venerato nell’Islam come al‑Masīḥ ʿĪsā ibn Maryam, profeta e Messia annunciato dagli angeli a Maria, come recita la Sura 3:45. Richiamare il nome “Palestina” su un cartellone natalizio, dunque, non è un atto di “biografia retroattiva” quanto una strategia di linguaggio che interseca una geografia attuale (Betlemme sotto Autorità Palestinese) e una geografia biblica (Giudea).
La distinzione non è pignoleria accademica: è il cuore della diatriba. Chi contesta l’insegna insiste che Gesù fu “un ebreo della Giudea” e che “Palestina” non fosse una identità nazionale definita al suo tempo; chi la difende replica che la toponimia esisteva già in età classica, che Betlemme oggi ricade nei Territori Palestinesi e che il messaggio serve a disinnescare la polarizzazione aprendo un varco di riconoscimento interreligioso.
“Divisivo” a Natale
Il New York Post ha raccolto a caldo le reazioni di turisti e passanti: definizioni come “divisivo” e “infiammatorio” punteggiano i commenti; alcuni giudicano l’iniziativa “offensiva” perché politicizzerebbe una ricorrenza religiosa, altri difendono la libertà d’espressione e la volontà di “far parlare” di Palestina in un periodo in cui l’attenzione mediatica è massima. Abed Ayoub, dal canto suo, rivendica l’obiettivo: non la provocazione fine a sé stessa ma la ricerca di somiglianze tra comunità spesso descritte come incompatibili: “in questo Paese — ricorda — la maggioranza è cristiana; e il luogo di nascita del Cristianesimo è in Palestina”. L’ADC ha inoltre confermato che gli spot a Times Square ruotano di settimana in settimana, e che durante le feste sono comparsi anche messaggi come “Jesus would say ‘tear down that wall’”, strizzando l’occhio alla retorica storica americana e alla realtà del muro di separazione che oggi cinge Betlemme.
Il ruolo, e i limiti, della pubblicità in piazza
Perché Times Square? Perché qui l’impatto di un messaggio non si misura solo in impression: la piazza è un moltiplicatore culturale. A livello di mercato, ci sono schermi per tutte le tasche — si va da slot di 15‑60 secondi in rotazione, anche a meno di 1.000 dollari al giorno su pannelli minori, a format prestigiosi da decine di migliaia di dollari al giorno su torri iconiche. In mezzo, una giungla di opzioni e intermediazioni. L’ADC sfrutta proprio la flessibilità del digitale: prenoti, carichi la creatività e vai live in 24‑48 ore. A Natale, poi, l’effetto‑rimbalzo sui social amplifica ogni frame.
Ma la pubblicità, a Times Square, è anche arena politica. Nel giugno 2025, l’Orthodox Coalition for Jewish Values ha lanciato una contro‑campagna in cui equiparava lo slogan “Free Palestine” a un appoggio ad Hamas, ammonendo: “America, wake up”. Il messaggio era durissimo, a riprova di come il conflitto israelo‑palestinese abbia colonizzato anche il linguaggio visuale dei cartelloni più famosi d’America.
Chi è l’ADC e cosa vuole in questo frangente
Fondata nel 1980 dall’ex senatore James Abourezk, l’American‑Arab Anti‑Discrimination Committee è una organizzazione per i diritti civili che dichiara di essere la più grande rete grassroots arabo‑americana negli Stati Uniti. Il suo raggio d’azione va dalla tutela legale nei casi di discriminazione alle campagne pubbliche su temi di politiche mediorientali e libertà d’espressione negli USA. Nel 2025 l’ADC è stata parte attiva di numerose controversie — comprese iniziative legali legate alle definizioni di antisemitismo in ambito scolastico in California — e ha spinto con decisione su campagne OOH (out‑of‑home) ad alto impatto simbolico. La linea è coerente: occupare lo spazio pubblico per spostare il linguaggio.