Si dà fuoco sulla Piazza Rossa a Mosca, la protesta estrema di un imprenditore-scienziato russo apre uno squarcio sul sistema della difesa che ha travolto la Russia delle armi
Tra leggi punitive, carenza di manodopera, sanzioni e costi esplosi: così la militarizzazione dell’economia è arrivata al suo punto di rottura
Vladimir Arsenyev
Si è cosparso il cappotto di liquido infiammabile, in pieno centro a Mosca, a pochi metri dalle mura del Cremlino. È il 75enne Vladimir Arsenyev, imprenditore e scienziato, per decenni fornitore dell’industria militare. Le fiamme si alzano nella Piazza Rossa di un pomeriggio di luglio 2024. Un gesto che in Russia è raro quanto una confessione pubblica. Alle spalle, contratti ridotti con la conglomerata statale Rostec, conti bloccati, ispezioni, scadenze giudicate “irrealistiche”, la prospettiva di un’inchiesta penale per mancata esecuzione degli ordini di difesa. Davanti, il deserto del mercato civile e una macchina bellica che chiede sempre di più, sempre più in fretta. Quella autocombustione, che le autorità hanno liquidato con una multa per protesta non autorizzata, è diventata il fotogramma che restituisce la frattura tra l’economia militarizzata della Russia e chi la tiene in piedi.
Un imprenditore contro il sistema
La piccola-media impresa di Arsenyev produceva componenti per le comunicazioni dei carri armati. Come molti fornitori, aveva beneficiato della fiammata di ordini seguita all’invasione su larga scala dell’Ucraina. Poi la curva s’è piegata: prezzi contestati, tempi accorciati, costi dei componenti in rialzo, forniture bloccate dalle sanzioni, conti aziendali congelati per dispute fiscali e un’ondata di ispezioni. Nella Russia della “mobilitazione economica”, la mancata consegna può trasformarsi in reato: la prospettiva di una causa penale è entrata a far parte del rischio d’impresa.
Non è un caso isolato. Dalla guerra in poi, secondo un’analisi su atti giudiziari di Mosca, almeno 34 tra dirigenti e manager dell’industria bellica sono stati incriminati per inadempienze contrattuali legate agli ordini di difesa; in almeno 5 casi sono già arrivate condanne fino a 6 anni. Altri 15 restano in custodia cautelare. È l’effetto combinato di una domanda militare vorace e di una cornice penale irrigidita.
Dal 2017 al 2023: quando il ritardo diventa reato
Già dal 2017 il legislatore russo aveva iniziato a introdurre responsabilità penali e amministrative sulle forniture militari. Dopo l’invasione, nell’autunno 2022 e poi nel 2023, il Codice penale è stato ulteriormente riformato: ha ampliato la lista delle condotte perseguibili durante mobilitazione o legge marziale, tipizzando reati come la violazione dei termini di un ordine di difesa statale, il rifiuto di firmare o adempiere un contratto di fornitura, con pene che arrivano fino a 10 anni. In parallelo, sono stati inaspriti gli obblighi (e le sanzioni) per chi, istituzioni e imprese, non collabora alla leva o alla logistica di mobilitazione.
La combinazione di retorica patriottica e deterrenza penale ha rimodellato i rapporti tra Stato e industria: i ritardi, anche quando imputabili a carenze di componenti o a colli di bottiglia logistici, possono attivare il binario giudiziario. Un messaggio che nel 2023 lo stesso Dmitry Medvedev, oggi vicepresidente della Commissione Militare-Industriale, ha ribadito ai vertici del settore.
La catena logistica sotto sanzioni
La guerra ha moltiplicato la domanda interna, ma ha anche ristretto l’orizzonte esterno. La stessa Rostec ha riconosciuto che dal 2022 le esportazioni di prodotti militari si sono dimezzate, perché la priorità è soddisfare gli ordini domestici; al tempo stesso, la conglomerata afferma di aver ampliato capacità per reggere il doppio fronte in futuro, con un portafoglio export che supererebbe i 60 miliardi di dollari.
Sul lato dell’offerta, le sanzioni su tecnologie e microelettronica hanno aggravato i costi e complicato l’approvvigionamento di componenti a più alto valore aggiunto, proprio quelli cruciali per munizionamento “intelligente”, avionica, droni e sistemi di comunicazione. Già nel 2024, analisti di settore segnalavano che i produttori russi erano “al massimo regime” ma esposti a carenza di manodopera qualificata e a penuria tecnologica.
Il paradosso del lavoro: disoccupazione minima, posti scoperti
La Russia vive un paradosso: disoccupazione ai minimi storici (circa 2,2%) e allo stesso tempo posti scoperti in abbondanza, soprattutto nella difesa. Nel 2025 il mercato del lavoro si è raffreddato sui salari d’ingresso, ma non ha colmato i vuoti: la stretta demografica, le emigrazioni, la mobilitazione e l’assorbimento di personale nella filiera militare hanno prosciugato l’offerta.
Secondo stime e dati ufficiali, tra 600.000 e 700.000 persone sono entrate tra 2023 e metà 2024 nell’industria della difesa, portando l’occupazione complessiva del comparto vicino a 3,8-4 milioni di addetti. Eppure il fabbisogno resta elevato: proiezioni di funzionari e studiosi parlano di 250.000-400.000 lavoratori ancora mancanti nel medio termine.
La fiammata dei salari nelle fabbriche d’armi dei primi anni di guerra si è attenuata: nell’estate 2025 si registrano i primi tagli agli stipendi offerti e un calo delle vacancies: tra giugno e agosto, poco più di 34.500 posizioni pubblicate contro 52.000 un anno prima. Segnale che molti impianti hanno toccato il tetto di capacità: ore straordinarie e nuove assunzioni non bastano più ad aumentare l’output.
Reclutare a ogni costo: bonus milionari, reclutatori pagati e platea più fragile
Per evitare una nuova mobilitazione di massa, il Cremlino ha spinto sulla leva dei bonus ai contrattisti: nell’estate 2024 il bonus di arruolamento federale è stato raddoppiato fino a 400.000 rubli, con invito alle regioni a eguagliarlo; il pacchetto minimo del primo anno può superare 3,25 milioni di rubli, mentre alcune regioni (da Khanty‑Mansi a Sverdlovsk) hanno spinto le una tantum oltre i 3 milioni di rubli per recluta.
Dietro le quinte lavora una rete di reclutatori incentivati da premi per ogni arruolato. Dal 2024 molte regioni hanno introdotto compensi a cottimo (finanziati da bilanci locali) che in alcuni casi superano i 500.000 rubli a testa, con tariffe differenziate: più alte per stranieri o migranti da Paesi CIS, più basse per i residenti locali. La spesa è lievitata: nel primo semestre 2025 i soli livelli regionali hanno destinato oltre 230 miliardi di rubli a bonus, con un conto complessivo che potrebbe aver superato i 4 miliardi di dollari; in alcuni territori i bonus hanno toccato il 10% della spesa regionale, comprimendo sanità, istruzione e programmi sociali. Non pochi enti hanno iniziato a tagliare o ritirare queste misure.
La platea dei candidati si è fatta più anziana e spesso con patologie croniche, come ammettono gli stessi canali di reclutamento locali. È l’altra faccia della carenza strutturale di manodopera e della concorrenza tra fabbriche e fronti.
Dalla sala contrattazioni alle aule di tribunale
Nel clima di commesse gonfiate e scadenze compresse, gli attriti tra fornitori e amministrazioni committenti su prezzi e penali sono esplosi. Il sistema preferisce il processo alla rinegoziazione: alcune sentenze hanno già portato manager dietro le sbarre, mentre altri restano agli arresti o in custodia. È una torsione che non riguarda solo gli apparati militari, ma anche i cantieri delle agenzie civili legate alla sicurezza nazionale (per esempio infrastrutture di riserva strategica). (Reuters).
Il caso Arsenyev è estremo ma non isolato: piccoli e medi subfornitori, spesso monocliente, si scoprono sostituibili nella catena di comando industriale, ma non sostituenti nel mercato civile, dove domanda e credito sono fiacchi e i tassi elevati. Una deriva tipica delle economie militarizzate: la spinta della spesa pubblica in armi sostiene il PIL nel breve periodo, ma incunea imprese e territori in una dipendenza che diventa fragilità.
Rostec al centro: più ordini interni, meno export
Nel nuovo equilibrio, Rostec è il perno: la conglomerata che abbraccia mig migliaia di aziende ha dirottato capacità verso gli ordini interni, comprimendo l’export. Allo stesso tempo, rivendica l’espansione di linee e l’arrivo di nuovi prodotti (dal Su‑57 al liner MS‑21), con l’obiettivo di “rientrare” sui mercati appena la domanda militare interna lo consentirà. Parole ottimiste che si scontrano con l’inerzia delle sanzioni e con il calo dei ricavi non petroliferi.
Numeri, incentivi e i limiti della “economia di guerra”
La Russia ha dimostrato di saper aumentare la produzione di munizioni e mezzi nel giro di 18‑24 mesi, ma al prezzo di spostare risorse da settori civili e di comprimere investimenti produttivi non militari. Con la carenza di personale ancora elevata e il costo del denaro alto, le imprese faticano a spingere oltre. I segnali del 2025 parlano di rallentamento: salari d’ingresso che crescono meno (+6,9% a novembre su base annua, contro +18,9% a gennaio), vacancies in calo e un’economia che scivola verso una forma di stagnazione inflazionata.
La “soluzione” di pagare di più i soldati e chi li recluta ha un limite fiscale: in diversi territori i bonus assorbono quote crescenti dei bilanci, spingendo ad alzare imposte indirette o a tagliare spesa sociale. È una spinta che può reggere nel breve periodo, ma mette in tensione il consenso locale e la tenuta di servizi essenziali.
Cosa ci dice il rogo di Piazza Rossa
Il rogo di Vladimir Arsenyev è un atto di denuncia ma anche una diagnosi: nella Russia militarizzata, la falla non è solo nei magazzini o nelle linee di montaggio; è nell’infrastruttura istituzionale che, di fronte a costi e colli di bottiglia, preferisce irrigidire leggi e pene invece di riconoscere i limiti del sistema. Una cornice nella quale il ritardo non è un problema di supply chain, ma un reato; la contrattazione sui prezzi non è fisiologia industriale, ma insubordinazione; l’impresa non è partner, ma appendice.