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la guerra

“O Kiev accetta la pace o useremo la forza”: il nuovo ultimatum di Putin scuote la partita ucraina

Il Cremlino alza la posta: tra missili su Kiev e pressioni diplomatiche, Mosca rilancia la richiesta di ritiro ucraino dai territori contesi. Cosa c’è dietro la frase che riaccende i timori di un’escalation e come rispondono Washington ed Europa

Redazione La Sicilia

27 Dicembre 2025, 20:03

“O Kiev accetta la pace o useremo la forza”: il nuovo ultimatum di Putin scuote la partita ucraina

Vladimir Putin ha scandito l’ennesimo avvertimento: se Kiev non “risolverà il conflitto in modo pacifico”, la Russia “porterà a termine l’operazione con la forza”. Una formula già ascoltata nei mesi scorsi, ma che, in questo preciso istante geopolitico — mentre Volodymyr Zelensky prepara un viaggio negli Stati Uniti per colloqui cruciali — assume il peso di un macigno.

Che cosa ha detto Putin, parola per parola

Nella nota rilanciata dall’agenzia ANSA, che cita la russa Tass, il presidente russo ha accusato le autorità di Kiev di aver avviato “ostilità su larga scala”, sostenendo che fin dall’inizio Mosca avrebbe chiesto il ritiro delle truppe ucraine dai “territori” contestati e che, in assenza di questa condizione, l’uso della “forza” resterebbe sul tavolo. È la riproposizione, in forma perentoria, di una linea già esplicitata a più riprese nel 2025, in particolare a fine novembre e ai primi di dicembre.

Le stesse parole-chiave — “ritiro ucraino” e “forza” — sono risuonate durante una visita in Kirghizistan il 27 novembre e in un’intervista a un’emittente indiana nei primi giorni di dicembre. All’epoca, Putin indicò come “punto di partenza” per un eventuale negoziato alcune proposte americane, senza arretrare su richieste considerate massimaliste: riconoscimento internazionale dei territori occupati dalla Russia e ritiro delle forze ucraine. “Se non si ritirano, lo faremo militarmente”, disse.

La cornice: attacchi sulla capitale e dossier negoziale in movimento

Mentre il Cremlino alza la voce, i fatti sul terreno parlano chiaro. Il 27 dicembre 2025 Kiev è stata colpita da un attacco combinato di missili e droni, con vittime e decine di feriti, danni alle infrastrutture energetiche e blackout in alcuni quartieri. Secondo le autorità locali, sarebbero stati impiegati anche vettori a lunga gittata come i Kinzhal. Il segnale — politico prima ancora che militare — è diretto: la guerra non rallenta, nemmeno alla vigilia di appuntamenti diplomatici sensibili.

Sul versante delle trattative, intanto, Zelensky è atteso negli USA per un incontro con Donald Trump, in Florida, finalizzato a testare un’ipotesi di piano di pace “in 20 punti” — evoluzione di una bozza in 28 punti discussa tra inviati americani, ucraini e russi nelle scorse settimane. Il documento toccherebbe questioni cruciali: garanzie di sicurezza per l’Ucraina, ricostruzione, status dei territori occupati, tra cui Donbas e l’area della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Resta però incerto quanto la Russia sia disposta a concedere e quanto Kiev possa accettare senza rinunciare ai propri principi costituzionali.

Le richieste russe, tra continuità e irrigidimento

La condizione fissata da Mosca è netta: ritiro delle forze ucraine dalle regioni rivendicate — dalla Russia annesse unilateralmente nel 2022 — e riconoscimento legale del loro status. In varie occasioni, il Cremlino ha citato esplicitamente Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson. È una piattaforma che ricalca annunci già formulati almeno da giugno 2024 e ribaditi più volte nel 2025. Nel lessico del Cremlino riemergono due concetti chiave: “fermare le ostilità” se l’Ucraina lascia i territori e, in alternativa, “liberarli con la forza”. Un binario che, nelle parole dello stesso Putin, include il Donbas come obiettivo minimo e la cosiddetta “Novorossiya” come obiettivo più ampio. La narrativa russa secondo cui l’Ucraina avrebbe “iniziato” la guerra viene riproposta per giustificare la postura militare. Ma la cronologia dei fatti — dall’annessione della Crimea nel 2014 alla massiccia invasione del febbraio 2022 — rimane un nodo inconciliabile con la posizione di Kyiv e dei partner occidentali. L’elemento politico qui è la pressione negoziale: Mosca presenta il “ritiro” come precondizione, non come punto da discutere.

La risposta di Kiev: nessun ritiro, nessuna resa

Dal lato ucraino, la reazione è stata coerente con la linea più volte espressa da Zelensky: nessun ritiro da territori ucraini, nessuna legittimazione delle annessioni. In passato, di fronte a richieste analoghe, il presidente ha parlato di un dovere costituzionale alla difesa del territorio e ha respinto “ultimatum” che prefigurerebbero una resa. Anche i più recenti accenni a ipotesi di referendum o consultazioni popolari su eventuali compromessi sono stati accompagnati da paletti rigidi sulla sovranità.

Non è un caso che Kiev collochi ogni discorso su tregue o cessate il fuoco dentro una cornice di garanzie: sicurezza in stile “Articolo 5” e un processo che eviti la cristallizzazione delle linee del fronte come “nuove frontiere”. La durezza dell’attacco su Kyiv del 27 dicembre rafforza a sua volta, agli occhi ucraini, l’idea che parlare di pace sotto i missili significhi esporsi a un ricatto.

Gli Stati Uniti e il tavolo informale: tra speranze e ambiguità

Il fronte americano appare dinamico ma non lineare. Attorno a Donald Trump si è sviluppata, negli ultimi mesi, una diplomazia parallela fatta di emissari e bozze successive. Lo stesso Trump ha lasciato intendere che “c’è una buona chance” di arrivare a un’intesa, ma ha anche frenato sull’esistenza di un piano definitivo “senza la sua approvazione”. Fonti statunitensi e ucraine parlano di una bozza aggiornata in 20 punti, con focus su garanzie, ricostruzione e regimi speciali per alcuni territori, ma le risposte del Cremlino restano sfuggenti.

La reazione di Mosca — definire le proposte americane una “base di partenza”, salvo riaffermare le condizioni irrinunciabili — indica una strategia di massimizzazione: mantenere aperta la porta del dialogo, alzando nel contempo l’asticella sul terreno. È la stessa ambivalenza osservata a fine novembre in Kirghizistan, quando Putin ha coniugato “disponibilità” con “minaccia di forza”.

Europa e vicini: il rischio contagio e la postura di difesa

L’offensiva del 27 dicembre ha avuto effetti collaterali oltreconfine: in Polonia si è alzata in volo la caccia, alcuni scali nelle regioni orientali sono stati temporaneamente chiusi a scopo precauzionale. Segnali che ricordano quanto il teatro ucraino sia contiguo allo spazio NATO e come ogni aumento di intensità militare alzi il livello di rischio.

In parallelo, l’Unione europea mantiene l’allineamento a Kiev su due coordinate: sostegno economico e militare, rifiuto di riconoscere annessioni e modifiche unilaterali dei confini. Gli europei guardano con attenzione al canale americano-temporaneo, ma insistono sul principio che ogni soluzione duratura non può prescindere dalla sovranità ucraina.