il vertice
“Una telefonata e due tavoli”: cosa c’è dietro il filo diretto Trump‑Putin prima del faccia a faccia con Zelensky
Garanzie “forti”, cessate il fuoco contestati, Europa chiamata in causa: come sta cambiando la trattativa sull’Ucraina tra annunci, pressioni e timori incrociati.
All’alba, a Mar‑a‑Lago, il giardino è un reticolo di microfoni coperti di condensa. Dall’altra parte dell’Atlantico, a Mosca, è già pomeriggio quando un consigliere del Cremlino scandisce: il cessate il fuoco “come lo vogliono europei e ucraini” rischia di allungare la guerra. Poche ore dopo, Donald Trump riceve Volodymyr Zelensky e lascia filtrare un dettaglio calibrato per cambiare i titoli dei notiziari: “ho avuto una telefonata costruttiva con Vladimir Putin”. Il messaggio è doppio: la linea diretta con Mosca esiste; e il negoziato è entrato nella fase in cui le parole diventano impegni. Lo confermano anche i canali russi, definendo la chiamata “buona e molto produttiva”.
Un quadro in rapido movimento
Secondo l’impostazione fatta circolare da Washington, gli Stati Uniti sarebbero pronti a offrire a Kiev garanzie di sicurezza “robuste”, con un coinvolgimento diretto di paesi europei: una sorta di protezione “alla Articolo 5” ma fuori dalla struttura formale della NATO. L’idea — su cui si ragiona da settimane — è che le capitali europee diventino co‑firmatarie, mentre Washington resta il decisore in grado di “portare Putin al tavolo” e di blindare l’architettura con deterrenza reale. È questa, oggi, la cornice che i negoziatori fanno filtrare: garanzie solide, responsabilità condivise, niente automatismi di alleanza.
Al tempo stesso, da Mosca arriva la contro‑narrazione: l’ipotesi di cessate il fuoco avanzata in ambienti europei e ucraini, specie se collegata a referendum o fasi transitorie, prolungherebbe il conflitto e potrebbe farlo riesplodere. È la tesi ripetuta in queste ore da Yuri Ushakov, consigliere di Putin, dopo la telefonata con Trump e nel pieno delle consultazioni. Il sottotesto: ogni pausa senza una decisione “coraggiosa” sul Donbass — a favore di Mosca — non sarebbe una soluzione ma un intermezzo.
La telefonata che orienta il tavolo
La sequenza è cruciale. Nella mattina di domenica 28 dicembre 2025, Trump parla con Putin. Lo definisce “un colloquio buono e molto produttivo”. Poco dopo, a Miami, vede Zelensky. Il filo logico è chiaro: sondare margini con Mosca, poi testare con Kiev fino a che punto spingersi su garanzie e calendario. Fonti russe aggiungono un tassello: creazione di due gruppi di lavoro USA‑Russia, uno su “vari aspetti della sicurezza”, l’altro su “questioni economiche”. È un segnale operativo più che simbolico: un metodo per trasformare il canale presidenziale in dossier tecnici e opzioni scritte.
Sul fronte ucraino, il presidente Zelensky insiste che molte questioni “potrebbero essere risolte prima di Capodanno”, ma che la riuscita dipende dai partner: serve pressione su Mosca e sostegno militare continuo per non negoziare sotto ricatto. Lo scenario resta asimmetrico: mentre si discute di “garanzie forti”, i missili russi colpiscono Kyiv e Sloviansk, alimentando in Ucraina il timore che ogni tregua senza un meccanismo di dissuasione credibile sia solo un invito a colpire di nuovo.
Le garanzie “alla Articolo 5” (senza NATO): cosa c’è e cosa manca
Nelle ultime settimane, negoziatori statunitensi hanno parlato apertamente di garanzie di sicurezza “robuste”, un pacchetto potenzialmente in grado di vincolare USA e partner europei a rispondere in caso di nuova aggressione contro l’Ucraina. La formula, spiegata pubblicamente dall’inviato Steve Witkoff, chiarisce che non si tratta dell’Articolo 5 in senso stretto, ma di un impegno “di livello equivalente” preso bilateralmente o in forma plurilaterale. L’obiettivo politico è duplice: evitare il veto interno alla NATO e, al tempo stesso, inviare a Mosca un segnale di costo certo. Restano da definire il perimetro geografico della protezione, le “soglie” che attiverebbero la risposta e, soprattutto, chi fa cosa in Europa.
Il ruolo dell’Europa
Nel dibattito, i leader europei — dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ai capi di governo — insistono su due punti: le garanzie devono essere “specifiche e affidabili”, e l’Europa non può limitarsi al ruolo di finanziatore esterno. È un passaggio politico sensibile, perché coincide con la richiesta americana che i paesi UE assumano una quota maggiore di responsabilità, anche operativa, nella stabilizzazione dell’Ucraina post‑bellica. Parigi, Berlino, Roma e Varsavia spingono per un meccanismo europeo che si innesti sulle garanzie americane, senza esserne una stampella passiva.
Il dossier più scivoloso: cessate il fuoco e linea del fronte
La posizione russa, rilanciata nelle ultime ore, è netta: un cessate il fuoco temporaneo — soprattutto se collegato a consultazioni territoriali — prolungherebbe il conflitto. Non è solo un argomento tattico: serve a spostare l’attenzione dal “fermare i combattimenti” al “chi concede cosa”, cioè dal tempo al territorio. È un classico della negoziazione in contesti d’occupazione: trasformare la pausa in riconoscimento di fatto.
Sul tavolo era comparsa nei mesi scorsi una cornice di cessazione delle ostilità che partiva dalla linea del contatto come base tecnica per negoziare, ribadendo il principio chiave: “i confini internazionali non si cambiano con la forza”. Ambienti europei e ucraini hanno lavorato a contro‑proposte rispetto a bozze russe che legavano la tregua a una cessione sostanziale di Donetsk e Luhansk. L’impostazione occidentale, più prudente, vincola ogni pausa a garanzie e monitoraggi internazionali, non a scambi territoriali.
In pubblico, Zelensky ha ripetuto due linee rosse: nessun riconoscimento formale di territori “russi”; disponibilità a discutere ritiro reciproco e zone demilitarizzate solo se accompagnate da garanzie e da un meccanismo di verifica internazionale. Il resto — tempi, modalità, calibro dei controlli — dipende dal capitolo garanzie. Qui si capisce perché Kyiv spinga per un ancoraggio USA‑UE non solo politico ma anche militare, con responsabilità precise in caso di violazioni.
I “venti punti” e i dettagli che contano
Dietro i comunicati, i team stanno limando un testo di circa 20 punti che — nella versione più avanzata — copre: cessazione graduale delle ostilità; regimi di controllo dello spazio aereo; corridoi umanitari; scambio di prigionieri; ritiro scaglionato con verifica terza; garanzie di sicurezza multilaterali; pacchetto economico e ricostruzione; status e protezione delle comunità in aree contese; misure su centrali e infrastrutture critiche energetiche; norme su droni e missili a medio raggio. In alcuni passaggi si ragiona su principi già visti in altre crisi: “silenzio operativo”, linee calde di de‑escalation, e “snap‑back” automatico delle sanzioni. Ambienti diplomatici hanno descritto la bozza come “all’90% pronta” già prima del faccia a faccia di Miami: il restante 10% contiene proprio le questioni più radioattive — territorio, composizione delle forze di interposizione, e clausole di risposta in caso di violazioni.
Perché il cessate il fuoco divide (e a chi conviene davvero)
Il cessate il fuoco, per definizione, salva vite. Ma in un conflitto con territori occupati e fronti mobili, la domanda vera è: salva vite oggi in cambio di quante domani? Per Kiev, la tregua senza scudi credibili significa concedere a Mosca respiro operativo. Per Mosca, la tregua “europea” rischia di congelare perdite e legittimare un status quo che il Cremlino considera temporaneo. Per Washington e l’Europa, il rischio è di trasformare la pace in una pausa, con la responsabilità politica — e finanziaria — sulle spalle. È anche per questo che Trump ha evitato di “chiamare” un cessate il fuoco immediato, spostando l’accento sulle garanzie e su un disegno più strutturato.
Le realtà sul terreno non aspettano i comunicati
Mentre i leader parlano, i raid continuano: nelle stesse ore dell’incontro in Florida, missili russi hanno colpito la capitale ucraina e altre città, confermando la distanza tra cronaca diplomatica e logica militare. La difesa aerea ucraina, rafforzata negli ultimi mesi, intercetta la maggior parte dei vettori ma non tutti; e il sistema elettrico resta un bersaglio sistematico, con conseguenze sulla vita civile e sulla resilienza del paese in inverno. Ogni giorno aggiunge urgenza al tema delle scorte: missili per la difesa aerea, munizioni d’artiglieria, componenti per droni e riparazioni rapide delle infrastrutture colpite.
La posta in gioco per l’Europa (e per l’Italia)
Dietro l’insistenza sulle garanzie c’è un tema di sicurezza continentale: se l’Ucraina resterà vulnerabile, l’Europa sarà costretta a un riarmo lungo e costoso, con bilanci pubblici sotto stress e industrie da riorientare. Viceversa, un accordo che fermi davvero la guerra e alzi il costo di una recidiva russa libererebbe risorse per la ricostruzione e stabilizzerebbe i confini. Ma serve un salto politico: dal lessico delle “solidarietà” a quello delle “obbligazioni”. E serve accettare che “forti garanzie” non sono solo clausole su carta: hanno un prezzo in euro, in sistemi d’arma, in presenza.
Per l’Italia, che ha interessi diretti in energia, cantieristica, agroalimentare e manifattura, la combinazione tra export e sicurezza dei corridoi commerciali orientali è decisiva. Partecipare alle garanzie — con criteri chiari, sostenibili e coordinati in sede UE — significa anche sedersi al tavolo della ricostruzione con una voce all’altezza del contributo.