il vertice
“Fasi finali” o nuova impasse? Dentro al tavolo Trump–Zelensky di Mar‑a‑Lago e alla vera posta in gioco
Il presidente Usa annuncia progressi sul suo piano di pace per l’Ucraina dopo l’incontro a Mar‑a‑Lago e una lunga telefonata con i leader europei. Ma il Cremlino alza l’asticella: ritiro ucraino dal Donbass come condizione
È nel salone da pranzo di Mar‑a‑Lago che Donald Trump accoglie Volodymyr Zelensky, e parla di “fasi finali” del suo piano di pace. Una scenografia da club esclusivo per un conflitto che devasta l’Europa orientale da quasi quattro anni. Nel giro di poche ore, il presidente americano annuncia “numerosi progressi”, conferma una telefonata con i leader europei e prepara – o riprende – il filo diretto con Vladimir Putin. A migliaia di chilometri, però, le sirene suonano su Kyiv dopo nuovi attacchi russi, e da Mosca filtra una linea dura: la guerra finirebbe solo se l’Ucraina si ritirasse dal Donbass ancora in mano a Kyiv. Un invito alla pace con il prezzo della rinuncia territoriale.
La coreografia diplomatica: chi parla con chi, e quando
Nelle ore precedenti l’incontro in Florida, Trump dice di aver avuto una telefonata “buona e molto produttiva” con Putin, annunciando poi un nuovo contatto “subito dopo” il faccia a faccia con Zelensky. La stessa versione viene confermata dal Cremlino, che parla di una conversazione durata circa 75 minuti e di un nuovo scambio in agenda. Nel frattempo, da Mar‑a‑Lago parte anche una chiamata con i leader europei – dalla Francia alla Germania, dall’Italia al Regno Unito, passando per Commissione europea, NATO e Norvegia – che secondo il presidente finlandese Alexander Stubb sarebbe durata “più di un’ora” ed entrata nel merito di “misure concrete” per fermare la guerra. Un mosaico di contatti che segnala il tentativo di costruire consenso attorno a un testo negoziale, ma anche la volontà americana di tenere in mano la regia.
Le “fasi finali” del piano: cosa si sa, cosa manca
Dalle parole pubbliche dei protagonisti e da fonti diplomatiche converge un quadro: un documento in circa venti punti, negoziato fra emissari di Washington e Kiev, inviato a Mosca per osservazioni, e destinato a essere accompagnato da accordi bilaterali USA‑Ucraina su sicurezza e ricostruzione. Zelensky ha spiegato che “circa il 90%” del testo sarebbe definito, ma permangono nodi irrisolti su status del Donbass, garanzie di sicurezza e rapporto con la NATO. Secondo ricostruzioni di stampa, tra le opzioni discusse ci sarebbero “garanzie tipo‑NATO” in alternativa a un ingresso formale, e un pacchetto economico per facilitare il congelamento delle ostilità. Ma nulla, ad oggi, è vincolante: non ci sono bozze pubbliche né impegni firmati.
La posizione di Kiev: flessibilità tattica, linee rosse strategiche
Accanto a Trump, Zelensky adotta una postura calibrata: disponibilità a “discutere” capitoli delicati, incluse eventuali “concessioni territoriali” in contesti ben definiti, ma riafferma con forza che l’Ucraina non accetterà il ritiro da territori sotto la sua sovranità. La linea rossa, ripetuta più volte negli ultimi mesi, riguarda proprio il Donbass: Kyiv controlla ancora porzioni della regione – stime ricorrenti parlano di circa 9.000 km² in Donetsk – e considera “incostituzionale” un arretramento che sancirebbe un precedente, alimentando una probabile nuova offensiva russa a medio termine. In altre parole: trattare sì, ma non per certificare un’occupazione.
La richiesta del Cremlino: ritiro ucraino dal Donbass e “decisione coraggiosa”
Sul versante russo, il messaggio è meno sfumato. Oltre a ribadire il rifiuto di un cessate il fuoco temporaneo – considerato da Mosca un modo di “congelare” la linea del fronte a vantaggio di Kyiv – il consigliere presidenziale Yuri Ushakov indica che, per chiudere la guerra, l’Ucraina dovrebbe ritirarsi dalle aree del Donbass che ancora controlla. È il punto più controverso: significherebbe consegnare a Mosca praticamente l’intera regione industriale orientale, dopo che il Cremlino ne ha già rivendicato l’“annessione” unilaterale nel 2022 (atto respinto dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale). Putin, dal canto suo, avverte che se Kyiv non vorrà la pace “alle condizioni giuste”, la Russia perseguirà i suoi obiettivi con la forza.
Il nodo NATO e le garanzie di sicurezza
Un altro capitolo sensibile riguarda il rapporto Ucraina–NATO. Le ricostruzioni di stampa indicano che Mosca continua a chiedere l’abbandono dell’obiettivo di adesione all’Alleanza Atlantica, mentre dal fronte occidentale prende corpo l’idea di garanzie di sicurezza “NATO‑like”: cooperazione militare avanzata, forniture e addestramento a lungo termine, con impegni di deterrenza ma senza l’Articolo 5. Kiev insiste però che, senza garanzie solide e multilaterali (non solo bilaterali USA‑Ucraina), qualsiasi intesa rischierebbe di essere un ponte verso nuove aggressioni. È su questo crinale che si misura la tenuta del piano: quanto saranno vincolanti le garanzie? Chi le firmerà? Con quali meccanismi di verifica e scatto automatico?
Europa dentro o fuori stanza?
La telefonata con i leader europei, organizzata dopo il bilaterale Trump–Zelensky, prova a dissipare il timore – diffusissimo nelle capitali UE – di essere relegati a spettatori. Ma la preoccupazione resta: diversi passaggi negoziali cruciali nelle scorse settimane sono avvenuti in formati ristretti, con consultazioni ex post. Allo stesso tempo, il **segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha parlato di “svolta” nel coinvolgimento occidentale sulle garanzie a Kyiv, riconoscendo il ruolo della Casa Bianca nel “rompere la stasi” con Mosca. Se l’Europa vuole contare nella fase attuativa – ricostruzione, sicurezza energetica, vigilanza sulle forniture dual use – dovrà esserci fin da subito nelle clausole di implementazione.
Il fronte militare non aspetta i negoziatori
Mentre a Palm Beach si parla di pace, la guerra produce nuovi crateri. Nelle ore a ridosso dell’incontro, Kyiv e altre città sono state bersaglio di ondate di droni e missili, con vittime civili e blackout. Il ministero della Difesa ucraino rivendica intercettazioni significative, ma conferma la pressione nemica su nodi chiave come Sloviansk e lungo l’arco Pokrovsk–Dobropillia. Dal lato russo, i comunicati vantano nuove avanzate e la presa di ulteriori centri nel Donetsk, affermazioni contestate dallo Stato Maggiore ucraino che parla di combattimenti in corso. In questo contesto, ogni ipotesi di “cessate il fuoco” senza monitoraggio internazionale e linee di ritiro verificate rischia di trasformarsi in un congelamento precario e instabile.
“Accordo” contro “cessate il fuoco”
Un aspetto semantico tutt’altro che secondario: Trump insiste sul fatto che si punti a un “accordo di pace” piuttosto che a un “cessate il fuoco”. Tradotto: non un semplice stop alle armi – spesso fragile e reversibile – ma un pacchetto strutturale che disciplini sicurezza, economia e confini. Il Cremlino afferma, dal canto suo, di non sostenere proposte europee di tregua temporanea, presentandole come espedienti dilatori. È il segnale che Mosca vuole un esito che riconosca, de facto, nuove realtà territoriali. Per Kiev, la priorità opposta: evitare che una “pace” figuri la legittimazione di un’annessione illegale. Due visioni che spiegano perché i negoziati restano appesi a formule e aggettivi.
Le tre domande che decideranno la sorte del piano
Che cosa significa “fasi finali”?È un indicatore reale di convergenza, o una mossa tattica per imprimere pressione alle parti? Senza testi pubblici, la prudenza è d’obbligo. L’esperienza recente insegna che, in assenza di sequenziamento e verifica, la “fase finale” può diventare un prologo a nuove recrudescenze.
Chi paga e chi garantisce?Ricostruzione e sicurezza costano decine di miliardi l’anno. Se l’Europa teme di essere chiamata al conto senza pesare sulle scelte politiche, la coesione occidentale ne risentirebbe. Rutte parla di “svolta” sulle garanzie: occorre tradurla in impegni firmati.
Dov’è la linea di confine negoziabile?La richiesta russa di ritiro ucraino dal Donbass è la linea del Piave per Kyiv. Qualsiasi compromesso su confini e status dovrà essere incardinato in un percorso legalmente robusto, con referendum solo se liberi, osservati e in pieno diritto ucraino; altrimenti, siamo fuori dal perimetro del diritto internazionale.
Come valutare l’esito di Mar‑a‑Lago
La giornata di Palm Beach è stata, indiscutibilmente, un momento politico: la stretta di mano, le parole di “serietà” rivolte a Zelensky e Putin, la regia americana di un doppio canale – europeo e russo – nello stesso pomeriggio. Ma l’esito diplomatico si misura su un metro diverso: un testo scritto, con timeline, verifica e condizioni; una cornice legale internazionale, no‑scappatoie; un equilibrio tra cessazione delle ostilità e tutela della sovranità; un meccanismo di sanzioni/incentivi reversibile in base al rispetto degli impegni.
Finché questi tasselli non saranno incastrati, parlare di “fasi finali” significa più un invito a sedersi che l’annuncio di un accordo fatto.
La frase che resta
“Entrambi vogliono che finisca”, dice Trump riferendosi a Zelensky e Putin. E forse è vero, ognuno a modo suo: Kyiv per tornare a vivere senza sirene, Mosca per cristallizzare conquiste, Washington per chiudere il dossier più incandescente della sua politica estera. Ma il come conta quanto – se non più – del quando. E oggi quel “come” passa da una parola sola: garanzie.