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il vertice

“A un passo dalla pace”, ma su Donbas e Zaporizhzhia il nodo resta: dentro il summit di Mar-a-Lago tra Trump e Zelensky

Un pranzo formale in una sala dorata, una telefonata con Putin appena prima, e un bilancio prudente: “Siamo vicini, ma ci vorrà tempo”. L’incontro in Florida accende speranze, mentre i due ostacoli più duri — territori orientali e centrale di Zaporizhzhia — restano senza soluzione

Redazione La Sicilia

29 Dicembre 2025, 07:37

“A un passo dalla pace”, ma su Donbas e Zaporizhzhia il nodo resta: dentro il Mar-a-Lago summit tra Trump e Zelensky

Nella sala da pranzo di Mar‑a‑Lago, tra porcellane e specchiere, Donald Trump e Volodymyr Zelensky si scambiano stretta di mano e parole calibrate; pochi minuti prima, come lo stesso presidente americano rivelerà, c’è stata una telefonata “produttiva” con Vladimir Putin. La guerra più lunga d’Europa dal 1945 non si spegne in un pomeriggio, ma dalla Florida arrivano segnali che meritano attenzione. Trump parla di un’intesa “vicina”, perfino “al 95%”, il leader ucraino conferma che il piano di pace in 20 punti è “al 90%” e che restano “uno o due temi spinosi”. Sotto la superficie, però, scorre la parte dura del dossier: il destino dei territori occupati nell’est dell’Ucraina e il controllo della centrale nucleare di Zaporizhzhia.

Il senso dell’incontro: ottimismo misurato, tempi lunghi

Alla fine del faccia a faccia, il messaggio condiviso è chiaro: il processo non è lampo. “Questo non è un accordo che si chiude in un giorno”, ripete Trump, che pure non rinuncia al registro dell’affare possibile. “Siamo molto più vicini”, aggiunge, ma specifica che resteranno settimane di lavoro. Zelensky rilancia sull’architettura del piano: 20 punti, 90% definito, “bisogna arrivare al 100%”. Entrambi evitano promesse rigide, fissano un appuntamento per gennaio con i partner europei e riconoscono che la parte davvero problematica sta altrove: l’assetto dei territori dell’est — il cuore del Donbas, con le porzioni ancora contese — e la gestione della ZNPP (Zaporizhzhia Nuclear Power Plant), la più grande centrale d’Europa, sotto controllo russo dal 2022.

Due nodi che valgono l’intero negoziato

Secondo la ricostruzione condivisa dalle delegazioni, su quasi tutto il resto c’è convergenza: cessate il fuoco con meccanismo di verifica, garanzie di sicurezza per Kyiv, ricostruzione, fondi dedicati, quadro per l’integrazione europea dell’Ucraina e, sullo sfondo, la definizione di una zona demilitarizzata lungo la linea del fronte da monitorare con tecnologie autonome e una presenza internazionale. I “due nodi”, invece, si irrigidiscono quando si passa dalle formule alle mappe:

Il primo riguarda il controllo dei territori orientali. Kyiv non intende legittimare annessioni o occupazioni oltre la linea del 2014/2022; Mosca — riferiscono più fonti — chiede che l’Ucraina “lasci” la maggior parte delle aree in cui le forze russe sono presenti di fatto. Una distanza che non si colma con la retorica.

Il secondo nodo è la centrale di Zaporizhzhia: gli Stati Uniti hanno evocato proposte di gestione congiunta, ipotesi di consorzi o regimi speciali; Zelensky si è detto contrario a una cogestione con la Russia, proponendo varianti che includono una cornice USA‑Ucraina con coinvolgimento internazionale e la creazione di una zona economica speciale demilitarizzata attorno a Enerhodar.

Sulle due questioni, Putin avrebbe ribadito la sua linea dura, mentre Zelensky ha ripetuto che non ci saranno “regali territoriali”. Il risultato: qui si gioca lo scarto tra un cessate il fuoco fragile e un accordo capace di durare.

Il “piano in 20 punti”: cosa c’è dentro e cosa manca

Nessun testo ufficiale è stato integralmente pubblicato, ma i principali capitoli — secondo quanto filtrato dalle delegazioni e confermato nelle ultime settimane — includono:

Un cessate il fuoco immediato dopo la firma, con un sistema di monitoraggio tecnologico e umano sulla linea di contatto per prevenire violazioni e incidenti.

Garanzie di sicurezza per l’Ucraina, sostenute da Stati Uniti, partner europei e paesi NATO. Qui spicca l’idea — discussa con intensità — di un impegno “a prova di ritorno” dell’aggressione, con re‑innesco automatico di sanzioni e sostegno militare in caso di violazioni.

Il profilo delle forze armate ucraine nel dopoguerra: Kiev ha chiesto e ottenuto un principio di forza permanente fino a 800.000 effettivi in tempo di pace, sostenuta finanziariamente dai partner occidentali, come deterrenza contro nuove offensive.

Un capitolo economico‑finanziario per la ricostruzione: Fondo dedicato, strumenti Banca Mondiale, accesso privilegiato al mercato europeo e grandi investimenti energetici.

La prospettiva di adesione all’UE: Kyiv chiede una data; Bruxelles mantiene prudenza, ma è sul tavolo un binario accelerato se le condizioni politiche e di sicurezza lo consentiranno.

Un regime speciale per i territori contesi: qui lo schema resta aperto, con ipotesi di zona demilitarizzata, free economic zones e presenza di peacekeeper. Proprio su questo punto, la Russia ha fatto sapere di considerare “bersagli legittimi” eventuali truppe europee dispiegate senza il suo consenso: un avvertimento che complica ogni meccanismo di terzietà.

Quel 10% non risolto — Donbas e Zaporizhzhia — appare dunque non un dettaglio, ma l’asse portante della contesa.

La telefonata con Putin e la cornice diplomatica

A innervare la giornata di Mar‑a‑Lago è stata la telefonata di Trump con Putin. Il presidente americano ha parlato di scambio “produttivo”, convinto che il leader russo “voglia” la pace. A frenare l’entusiasmo c’è, però, la realtà del campo: mentre a Palm Beach si apparecchia per il pranzo, nuovi attacchi russi colpiscono infrastrutture energetiche e centri urbani ucraini, lasciando ancora una volta Kyiv e altre città con blackout e danni alla rete. È esattamente questo contrasto — diplomazia ad alta visibilità e pressione militare sul terreno — a misurare la distanza tra volontà dichiarate e comportamenti sul campo.

Nel corso dell’incontro, Trump e Zelensky hanno coinvolto in una conference call i leader di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Finlandia, Polonia, Norvegia, oltre ai vertici di NATO e Commissione europea. È una fotografia che conta: la cornice euro‑atlantica resta parte essenziale della legittimazione e dell’implementazione di qualunque accordo.

Gli europei tra sostegno e cautela

Sul fronte europeo, l’orientamento è duplice: pieno sostegno all’Ucraina e alla sua sovranità, disponibilità a finanziare ricostruzione e sicurezza, ma estrema cautela sugli aspetti più divisivi. L’idea di una forza internazionale di interposizione — che in alcuni ambienti è tornata a circolare — incrocia non solo i veti russi, ma anche le perplessità di molte capitali europee pronte a rafforzare addestramento, difesa aerea e sostegno finanziario, meno a dispiegare truppe in un teatro ad alta intensità e con rischio di escalation diretta.

Quanto all’adesione all’Unione Europea, i negoziati sono apertissimi ma non scontati. Alcuni Stati membri chiedono garanzie su riforme, anticorruzione, stato di diritto e sostenibilità finanziaria dell’allargamento. Nel piano in 20 punti, l’UE è chiamata a fornire una prospettiva chiara, compatibile con la sicurezza e con la gestione dei confini in tempo di post‑conflitto.

Sicurezza, deterrenza e la questione dell’esercito ucraino

Uno dei passaggi più concreti nelle parole di Zelensky riguarda la forza militare ucraina “post‑guerra”: un esercito fino a 800.000 unità anche in tempo di pace. Dal punto di vista di Kyiv, è la risposta imprescindibile alla geografia: confine lungo con la Russia, minaccia non eliminata da un accordo, necessità di una deterrenza credibile. Per Washington e i partner europei, la richiesta si incastra in un impegno finanziario pluriennale — stipendi, addestramento, equipaggiamenti — e in un coordinamento con gli standard NATO. Qui l’innovazione è la promessa di garanzie legali vincolanti, un gradino sopra le intese politiche della stagione precedente. Resta il nodo: tali garanzie quanto si avvicinano all’Articolo 5 senza essere formalmente NATO? E come reagirà Mosca a una struttura che, nella sostanza, cementa l’Occidente a difesa di Kyiv?

Donbas: tra mappe, status speciali e referendum che nessuno vuole

Sul Donbas, alcune ipotesi tecniche hanno fatto capolino nelle ultime settimane: dalla zona demilitarizzata controllata da osservatori internazionali a un regime economico speciale per attrarre investimenti e congelare sul piano pratico le tensioni. Ma la politica — e il diritto — non si lasciano addomesticare dai tecnicismi. L’Ucraina accetta solo formule che non implichino riconoscimento delle annessioni; la Russia continua a pretendere l’abbandono delle aree da parte di Kyiv. Ipotesi di referendum sotto supervisione internazionale in territori occupati, con popolazione sfollata e regime di libertà limitata, vengono considerate impraticabili da molte capitali: non offrirebbero né legittimità né stabilità. In altre parole, senza una svolta politica di Mosca, le soluzioni “creative” rischiano di essere gusci vuoti.

Zaporizhzhia: sicurezza nucleare e sovranità

La ZNPP è una questione a sé. È il più grande impianto nucleare d’Europa, fermo da tempo e al centro di allarmi ripetuti dell’AIEA. Le idee sul tavolo oscillano tra consorzi con quote definite, trust internazionali a guida tecnica, e la trasformazione dell’area in zona smilitarizzata con accesso garantito agli ingegneri e agli ispettori. Zelensky ha escluso “cogestioni” con la Russia che intacchino la sovranità ucraina; Trump ha parlato pubblicamente di un lavoro congiunto per riaprire l’impianto, in una formulazione che ha creato confusione, tanto più mentre Mosca mantiene il controllo militare sul sito. Qui l’elemento di rottura — se mai arriverà — dovrà essere certificato da un’intesa che rimetta Zaporizhzhia sotto piena autorità ucraina, con garanzie tecniche e di sicurezza multilaterali. Diversamente, nessun regolatore europeo potrà accettare un ritorno in esercizio senza un quadro di safety e security trasparente e verificabile.

Il ruolo degli Stati Uniti: regia, ma non assegno in bianco

La postura americana che emerge dal summit è duplice. Da un lato, Washington si presenta come regista del processo, mediatore con Mosca e primo architetto delle garanzie a Kyiv. Dall’altro, Trump segnala che “l’Europa dovrà fare una parte grande” della sicurezza e della ricostruzione, un messaggio politico già visto che parla ai contribuenti americani e agli alleati europei insieme. In platea, oltre a Zelensky, si muove una squadra che include l’inviato speciale Steve Witkoff e figure‑ponte come Jared Kushner, a testimoniare una diplomazia a geometria variabile, dove canali ufficiali e non convenzionali s’intrecciano.

Tre indicatori per capire se la trattativa è reale

Dinamica sul campo. Se nelle prossime 4‑6 settimane la Russia dovesse intensificare gli attacchi nel Donbas o contro le infrastrutture energetiche, la finestra diplomatica si restringerebbe. Un calo misurabile delle ostilità — specie su assi chiave — sarebbe il primo segnale che “qualcosa” si muove davvero.

Formato delle garanzie. La trasformazione delle promesse in testo legale — con firme e impegni verificabili da USA e partner europei — è la linea di demarcazione tra un accordo politico e una dotazione di sicurezza robusta. Capiremo molto da come verrà scritto il meccanismo di risposta in caso di violazioni.

Zaporizhzhia. La definizione di una catena di comando per la centrale, l’accesso stabile dell’AIEA e un calendario di ripristino delle infrastrutture critiche (diga, linee elettriche, personale) sono test di serietà del negoziato. Senza una soluzione chiara su ZNPP, l’intero pacchetto resta vulnerabile.

Il margine di manovra di Zelensky e i rischi politici

Per Zelensky, la stanza di manovra è stretta. La società ucraina ha sopportato quasi quattro anni di guerra su larga scala, decine di migliaia di vittime, distruzioni massicce e ondate di blackout. Accettare una formula che “congeli” i territori senza una traiettoria di reintegrazione chiara potrebbe essere politicamente indigeribile. Ecco perché il presidente ha più volte accennato alla necessità di un coinvolgimento pubblico nel caso di compromessi molto dolorosi. Sul versante opposto, Kyiv non può permettersi di firmare una pace che non sia sostenibile militarmente: da qui la richiesta di 800.000 effettivi e garanzie vincolanti.

La scommessa (e il calcolo) di Trump

Per Trump, ottenere un accordo spendibile in politica interna — una “pace con onore” che riduca i costi americani e ribadisca l’idea di burden‑sharing con l’Europa — sarebbe un colpo politico di prima grandezza. Ma il calcolo ha variabili fuori controllo: la reale disponibilità di Putin a fissare su carta limiti e verifiche, l’unità dei partner europei, e l’evoluzione della guerra nelle prossime settimane. Di qui l’oscillazione tra annunci di “progresso enorme” e la clausola di salvaguardia: “Ci vorrà tempo”.