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Ucraina, il patto al 90%: dentro il piano di pace in 20 punti e i tre nodi che tengono il conflitto sul filo

Tra tregua, Donbass e la centrale di Zaporizhzhia, così si gioca l’ultimo 10% della partita diplomatica che potrebbe fermare la guerra: cosa c’è davvero nel documento, cosa manca, cosa viene dopo

Redazione La Sicilia

29 Dicembre 2025, 12:47

Ucraina, il patto al 90%: dentro il piano di pace in 20 punti e i tre nodi che tengono il conflitto sul filo

Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre un telefono vibra: su WhatsApp arriva alla stampa un messaggio del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy. Non è un augurio di Natale: è l’annuncio che un piano di pace in 20 punti esiste, è sul tavolo, e — parole sue — potrà essere sottoposto a un referendum nazionale se ci sarà una tregua minima di 60 giorni per permettere al Paese di votare. Un azzardo politico, un segnale al fronte e agli alleati, un invito a Mosca. Da quel momento, il negoziato si incunea in un corridoio strettissimo: «intesa al 90%», ma quel 10% che manca coincide con i nodi più esplosivi — il Donbass, la centrale nucleare di Zaporizhzhia, la definizione stessa di tregua e dei meccanismi di verifica. È lì che si decide se la guerra più destabilizzante d’Europa può davvero rallentare.

Cosa sappiamo del piano: l’architettura in 20 punti

Il documento — frutto di un lavorio che ha coinvolto Kiev, Washington e partner europei — mette nero su bianco alcuni principi di base: riafferma la sovranità ucraina, definisce un accordo di non aggressione tra Ucraina e Russia, introduce garanzie di sicurezza “tipo Articolo 5” coordinate da Stati Uniti ed europei, e prevede un regime di monitoraggio della linea di contatto tramite sensori e sorveglianza satellitare per individuare e certificare violazioni. L’idea è che, una volta firmato, scatti un cessate il fuoco immediato con un meccanismo di verifica multilivello e la presenza di una missione internazionale lungo la linea. Sono indicati inoltre un tetto di 800.000 effettivi per le Forze Armate ucraine in tempo di pace, un percorso accelerato verso l’integrazione economica nell’UE e un programma di ricostruzione guidato da un fondo dedicato.

A Washington si ragiona anche su garanzie di sicurezza di medio-lungo periodo: secondo fonti ufficiali ucraine, sul tavolo c’è un impegno statunitense di 15 anni, che Zelenskyy vorrebbe estendere a 50 per scoraggiare nuove aggressioni. L’offerta è parte di un pacchetto più ampio, con protocolli di monitoraggio e la partecipazione di partner internazionali. Ma il punto resta delicato: Mosca rifiuta qualsiasi ipotesi che implichi la presenza di forze NATO sul suolo ucraino.

Il 90% c’è. E quel 10%?

Lo dice chiaramente Zelenskyy: i dossier più sensibili sono due — la gestione e il controllo della centrale di Zaporizhzhia (ZNPP) e lo status del Donbass — a cui si aggiunge un terzo tema trasversale, i parametri della tregua. È qui che il documento s’inceppa. L’Ucraina esclude scambi territoriali, ribadendo che «non ha diritto di cedere le proprie terre». La Russia, per contro, pretende il ritiro ucraino dalle porzioni di Donbass ancora controllate da Kiev. In mezzo, gli Stati Uniti provano a costruire ponti: si è parlato, tra le ipotesi circolate, di zone economiche speciali demilitarizzate e di una forza internazionale lungo la linea di contatto. Ma la quadratura del cerchio non c’è ancora.

I tre nodi

Il Donbass resta il cuore geopolitico e simbolico della guerra. Per Kiev, qualunque ipotesi che parta dal “congelamento” delle linee attuali rischia di cristallizzare un’ingiustizia; per Mosca, l’obiettivo dichiarato è l’uscita totale dell’Ucraina dal Donetsk e Luhansk residui. Da settimane, negoziatori americani ed europei setacciano formule intermedie: una di queste, che ha circolato nelle consultazioni, immagina per il tempo della transizione una zona demilitarizzata con regime economico speciale, robusto monitoraggio internazionale e divieto per qualsiasi “omini verdi” di infiltrarsi sotto mentite spoglie. Una soluzione che punta a spegnere la dimensione militare, senza pre-assegnare la sovranità. Ma qui scatta l’ostacolo politico: per Zelenskyy non si tratta di barattare territorio per garanzie; per il Cremlino, ogni passo che non sancisca un vantaggio territoriale visibile è insufficiente. Il risultato è uno stallo ragionato, con un lessico che ammorbidisce senza ancora risolvere.

Il contesto non aiuta: sul terreno, nella regione di Donetsk, gli scontri sono ancora intensi e i bombardamenti sulle città ucraine proseguono. I negoziati si misurano dunque con una cartina che cambia a fuoco lento: la differenza tra “linea di contatto” e “confine” è tutt’altro che semantica. Anche nelle versioni europee circolate in autunno, la proposta era di far partire ogni discussione territoriale dalla linea di contatto e non dal confine amministrativo pre-2014, una scelta che Kyiv contesta, mentre i tre principali Paesi europei — Francia, Germania, Regno Unito — hanno elaborato un proprio schema per tenere insieme sicurezza e ricostruzione.

Il secondo nodo è la centrale di Zaporizhzhia, il più grande impianto nucleare europeo, occupato dai russi dal marzo 2022 e mantenuto in cold shutdown. Le ultime missioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) sono state nette: la situazione resta «estremamente fragile» per via dell’unica linea di alimentazione esterna rimasta e per i problemi di raffreddamento dopo la distruzione della diga di Kakhovka. Prima di parlare di riavvio, servono condizioni che oggi non ci sono. Sul piano diplomatico, però, proprio la ZNPP è diventata una leva: la proposta americana ventilata nelle scorse settimane prevedeva una gestione consortile con quote paritarie tra Ucraina, Russia e un partner terzo; Kiev insiste invece su una joint venture USA-Ucraina con Enerhodar demilitarizzata e trasformata in zona economica speciale. In entrambi i casi, l’ostacolo è politico e tecnico: chi controlla, chi verifica, chi investe i miliardi necessari a ripristinare sicurezza e produzione?

Dal lato “tecnico”, il capo dell’impianto nominato dai russi ha ipotizzato tempi di 18 mesi per tornare a produrre, “se la guerra finisse presto”. Un condizionale che pesa: senza una tregua stabile e un assetto condiviso, ogni cronoprogramma resta sulla carta. Per l’IAEA, l’obiettivo minimo è prevenire l’incidente: più linee elettriche d’emergenza, più acqua per il raffreddamento, meno truppe dentro e attorno al sito. Tutto il resto — dalla licenza degli organismi regolatori alla catena di comando — dipende da un accordo che ancora non c’è.

Il terzo nodo è il più pratico e, paradossalmente, il più politico. Zelenskyy ha legato il proprio consenso a un referendum all’ottenimento di una tregua di almeno 60 giorni, tempo ritenuto necessario per organizzare e svolgere la consultazione. La Russia non ha ancora accettato questo vincolo; negli scorsi mesi aveva spinto per cessate il fuoco brevi (24-48 ore) per scopi umanitari, mentre Kiev chiede uno stop molto più lungo e immediato. Nel mezzo, le idee su una missione internazionale che pattugli la linea e su un sistema di sorveglianza con satelliti e droni per documentare violazioni in tempo reale. Chiudono il cerchio un meccanismo sanzionatorio automatico: se Mosca violasse la tregua, scatterebbero il ripristino coordinato delle sanzioni e risposte calibrate previste dalle garanzie di sicurezza. Sono architravi che rafforzano il 90% d’intesa, ma dipendono da quella firma che ancora non c’è.

Gli elementi già concordati

Il piano disegna un sistema di garanzie pluriennali: gli Stati Uniti offrono uno schema di 15 anni estendibile, con protocolli di monitoraggio, mentre i partner UE lavorano a un proprio capitolo — inclusa la gestione dei beni sovrani russi congelati per finanziare la ricostruzione. Resta aperto il bilanciamento tra garanzie “tipo Articolo 5” e i limiti che Mosca pretende sulla presenza NATO. In parallelo, viene confermato il percorso di adesione all’Unione Europea e un’agenda di integrazione economica con accessi preferenziali ai mercati UE.

Il documento prevede un Fondo per la Ricostruzione dell’Ucraina, il rafforzamento delle infrastrutture energetiche, un programma industriale congiunto e un ruolo cardine per Banca Mondiale e istituzioni europee nel mobilitare capitali. Stime circolate tra le bozze parlano di un fabbisogno fino a centinaia di miliardi di dollari in più anni, con l’obiettivo di accelerare i cantieri e riattivare le filiere. La complessità — anche qui — è politica: la gestione dei proventi di eventuali investimenti legati ai beni russi e le condizioni per lo sblocco di nuove tranche.

Nel solco dei progressi degli ultimi mesi, il piano consolida i canali sul fronte umanitario: accesso agli aiuti, protezione delle infrastrutture civili, scambi di prigionieri su base regolare. In estate, seppure senza passi avanti sulla tregua, si era comunque registrata un’intesa per nuovi scambi, segno che una parte dei canali resta funzionante anche quando la politica si impantana.

Perché il 10% pesa come un macigno

In diplomazia, un “quasi accordo” vale quanto un “non accordo” finché i punti dirimenti restano aperti. Qui il 10% non è cosmetico: riguarda la mappa del potere e la sicurezza nucleare. Sul Donbass, la domanda è se si possa prevedere un percorso in fasi che rimandi la questione della sovranità formale e, nel frattempo, neutralizzi l’uso del territorio come base di manovra militare. Su Zaporizhzhia, è se esista una governance ibrida in grado di garantire sicurezza tecnica e al tempo stesso non premiare l’occupazione. Sulla tregua, infine, si tratta di stabilire chi controlla, chi decide, chi sanziona. È il cuore del “come” più che del “cosa”.