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Nuove regole e liste nere a Gaza: da domani stop di Israele a 37 ong umanitarie. «Condanna a morte per centinaia di bambini»
Dal 1° gennaio Israele revoca le licenze a decine di organizzazioni umanitarie, incluse Save the Children e Medici senza frontiere: il nuovo registro impone la consegna dei nomi del personale
Foto di Save the Children
Con effetto dal 1° gennaio 2026, il Ministero israeliano per gli Affari della Diaspora e la Lotta all’Antisemitismo ha annunciato la sospensione delle licenze per decine di ong internazionali che operano a Gaza e in parte in Cisgiordania. Tra le realtà colpite figurano Save the Children, Medici senza frontiere, Oxfam, ActionAid, CARE International, Norwegian Refugee Council, International Rescue Committee, World Vision e, in alcune liste diffuse alla stampa, anche diramazioni di Caritas Internationalis.
Senza registrazione, non sarà consentito alle organizzazioni l’ingresso di personale tecnico internazionale – fondamentale per interventi in ambito sanitario, idrico e igienico-sanitario – di né di beni di prima necessità, attraverso i confini controllati da Israele verso Gaza o la Cisgiordania. Tutto questo avviene in una fase in cui i bisogni della popolazione sono enormi. «Nelle zone di conflitto, sono i bambini a soffrire maggiormente ed è nostro compito, come operatori umanitari, essere presenti per loro - ha dichiarato Ahmad Alhendawi, Direttore Regionale di Save the Children per Medio Oriente, Nord Africa ed Europa dell’Est - Queste nuove norme di registrazione avranno un impatto grave sull’accesso ai servizi essenziali e metteranno in pericolo tantissime vite, soprattutto in inverno».
Da oltre due anni, 1,1 milioni di bambini a Gaza vivono un’inaudita catastrofe umanitaria, senza avere alcuna responsabilità. Oltre 20.000 bambini sono stati uccisi e migliaia risultano dispersi, presumibilmente sepolti sotto le macerie. I bombardamenti incessanti hanno devastato gran parte di Gaza, causando lo sfollamento di quasi due milioni di persone, ora costrette a vivere in rifugi improvvisati e tende. Le rigide condizioni invernali aggravano ulteriormente la crisi: piogge torrenziali e allagamenti hanno distrutto tende e costretto famiglie a stare nell’acqua contaminata da liquami, aumentando il rischio di malattie. «I casi di bambini e neonati morti per ipotermia nelle ultime settimane sono un tragico monito sulle conseguenze letali del blocco degli aiuti umanitari - dice Save the children - È inaccettabile ostacolare le operazioni umanitarie, attraverso un sistema che l’ONU ha definito come caratterizzato da criteri vaghi e altamente politicizzati, che impongono alle organizzazioni umanitarie requisiti impossibili da soddisfare senza violare gli obblighi del diritto internazionale o compromettere i principi umanitari fondamentali».
Per Israele, la misura serve a «impedire lo sfruttamento dell’assistenza umanitaria da parte di gruppi armati» e colpisce quanti non avrebbero rispettato i nuovi requisiti di registrazione introdotti nel marzo 2025: consegna dei nominativi del personale (in particolare dei dipendenti palestinesi), dettagli su finanziatori e partner operativi, nonché una valutazione di “idoneità” legata anche a prese di posizione ritenute «delegittimanti» verso Israele. Le organizzazioni non in regola devono cessare le operazioni entro il 1° marzo 2026.
Gli organismi israeliani di coordinamento, in particolare COGAT, sostengono che le ong sospese rappresentino “meno dell’1%” del totale degli aiuti che entrano nella Striscia e che l’assistenza continuerà tramite le agenzie rimaste autorizzate. Le ong ribattono che la quota non dice nulla sull’impatto: molte fra quelle colpite gestiscono funzioni sanitarie e logistiche critiche, e l’interruzione a catena di visti, dogane e permessi può paralizzare intere filiere di approvvigionamento.
Il caso MSF: sicurezza del personale e obblighi di legge
Al centro del braccio di ferro c’è Medici senza frontiere, tra i principali erogatori di cure nella Striscia. Il ministero israeliano ha sostenuto che alcuni dipendenti avrebbero «legami con Hamas o Jihad Islamica»; l’organizzazione respinge accuse generiche e ribadisce che «non assumerebbe mai consapevolmente persone impegnate in attività militari». A monte, la divergenza è metodologica e legale: Israele chiede elenchi completi del personale e informazioni sensibili per una verifica di sicurezza; MSF e altre ong replicano che la consegna integrale dei dati esporrebbe i lavoratori a rischi diretti in un contesto dove gli operatori umanitari sono stati uccisi, e potrebbe confliggere con le norme europee sulla protezione dei dati applicabili alle organizzazioni registrate in Europa. In più, la richiesta di condividere dettagli di donatori e partnership è considerata invasiva e potenzialmente lesiva della neutralità umanitaria.
Non è un dibattito accademico: secondo fonti dell’ONU citate da MSF Francia, dall’inizio della guerra sono stati uccisi centinaia di operatori umanitari e oltre un migliaio di professionisti sanitari; pubblicare o trasferire liste potrebbe significare renderli identificabili in un teatro di conflitto ad altissima letalità. Anche per questo, piattaforme della società civile europea hanno chiesto alla Commissione UE di rivalutare l’“adeguatezza” del regime di protezione dei dati di Israele ai fini del GDPR, proprio alla luce degli usi di dati personali in aree di conflitto.
Le nuove regole: burocrazia come strumento di pressione
Il nuovo registro INGO israeliano prevede molto più che un controllo contabile: domanda liste dettagliate dello staff (in alcuni casi includendo familiari), contatti, passaporti, mappa dei finanziatori e dei partenariati, con clausole che consentono il rigetto qualora l’organizzazione, o singoli suoi membri o partner, abbiano sostenuto campagne considerate ostili (ad esempio il boicottaggio), oppure la pursuit di accountability giuridica verso forze di sicurezza israeliane. Il quadro – giudicato da numerose ong vago e politicizzato – arriva dopo che un ricorso di AIDA, il coordinamento che raggruppa oltre 80 ong, è stato respinto dall’Alta Corte israeliana: da quel momento, sei mesi per ri-registrarsi, con un’ulteriore finestra di soli 7 giorni per eventuali appelli.
Organizzazioni come ActionAid e Plan International hanno documentato, già nell’autunno 2025, che le domande di autorizzazione per convogli umanitari venivano rigettate con causali quali “non autorizzato”, mentre la nuova procedura di registrazione istituiva un collo di bottiglia sui visti di ingresso del personale internazionale. Risultato: magazzini pieni in Egitto e Giordania, ospedali in Gaza in attesa di farmaci essenziali e operatori costretti a lavorare sotto organico.
Dal fronte internazionale, la decisione ha suscitato reazioni critiche. Arrivano appelli congiunti di governi – tra cui Regno Unito, Canada, Francia, Giappone – che sollecitano Israele ad allentare vincoli e a sbloccare ulteriori punti di ingresso per gli aiuti, ricordando che l’obbligo di “facilitare” l’assistenza a una popolazione occupata è parte del diritto internazionale umanitario e delle misure provvisorie ordinate dalla Corte internazionale di giustizia nel 2024.