L’omicidio Spampinato nell’ultimo articolo la “chiave” del giallo
Il cronista, 24 ore prima di essere ucciso, legava un attentato ai traffici del mercato ortofrutticolo di Vittoria, crocevia di mille interessi tra tombaroli e neofascisti. La confessione “sospetta” di Campria
Titolo: «Vittoria, bomba al tritolo contro un garage». Attacco: «Continua a Vittoria la guerra del tritolo, nella tarda serata di ieri una bomba è esplosa davanti al garage di un edificio di via Firenze. Un attentato che ha tutte le caratteristiche dell’avvertimento mafioso».
Ventiquattro ore prima del suo omicidio Giovanni Spampinato scrive di un ordigno che viene fatto esplodere ai piedi del garage di un palazzo di Vittoria dove abita un sindacalista del mercato ortofrutticolo. Secondo il giornalista una «intimidazione tra i gruppi interessati al controllo e alla protezione di quel mercato da cui passa gran parte dei primaticci prodotti delle serre della fascia costiera». Non era la prima volta che scriveva di quel mercato su “L’Ora”. Il 7 ottobre aveva firmato un’inchiesta sul caro prezzi parlando del mercato di Vittoria «al centro di intensissimi traffici che escono fuori dagli angusti confini della provincia. Molta merce parte per il nord e anche per l’estero. Un giro di affari di miliardi». Il mercato ortofrutticolo di Vittoria e la fascia costiera della città erano sotto il controllo della rete che faceva capo a Cirasa, boss della provincia. La stessa che imponeva il pizzo negli stand entrando nel tessuto economico e che gestiva il contrabbando di sigarette, armi ed esplosivo.
È in quella rete vittoriese che si muovono anche i criminali trafficanti nei reperti archeologici come quelli rubati due anni prima nel laboratorio di Guarino.
L’articolo di Spampinato sulla bomba di via Firenze a Vittoria inserito nel contesto della controinformazione comunista già attenzionata da parti deviate dello Stato (come accadeva nel resto d’Italia) potrebbe essere il motivo (o uno dei motivi) dell’accelerazione che porta al suo omicidio. Ma da otto mesi c’è già un morto con un buco in fronte che fa troppo rumore e Ragusa deve restare “babba”, lontana da ulteriori clamori. Uccidere un giornalista con un’esecuzione mafiosa avrebbe rovesciato del tutto quel paradigma perfetto per continuare a operare in sistemi criminali (dove si infiltrano anche i neofascisti) che dovevano restare lontano dai riflettori. Quale migliore occasione allora di usare il figlio del giudice rimasto incastrato nell’omicidio Tumino, sospettato da una intera città che per salvare la sua onorabilità (ma forse anche la vita) da otto mesi fa il doppio gioco coi magistrati per sottrarsi dai veleni del tribunale, coi contrabbandieri forse venuti a conoscenza del colloquio col maggiore della guardia di finanza e con Giovanni Spampinato al quale chiede altri articoli che lo scagionino da ulteriori sospetti. Utilizzare l’arma di distrazione di massa per eliminare il giornalista: la provocazione al contrario. Di quello che accadde la sera del 27 ottobre, di cosa si dissero in macchina Giovanni e Roberto dentro la 500 del giornalista prima che i sei colpi di pistola lo uccidessero, esiste solo la versione dell’assassino reo confesso. «Mi accusava del delitto Tumino, si è fermato davanti al carcere mi ha detto “scendi e costituisciti” e io ho sparato». Versione valorizzata anche dal processo che ne seguì. In primo grado Roberto Campria fu condannato dalla Corte d’assise di Siracusa a 21 anni: omicidio semplice, giudicando equivalenti le aggravanti della premeditazione e della minorata difesa alle attenuanti della provocazione e le generiche.
Per i giudici di primo grado Spampinato quella sera lo aveva provocato: «scendi e costituisciti!». Delitto commesso in uno stato di ira. “Sparavo contro tutto, anche contro me stesso” dirà l’assassino ai giudici. In Corte d’Assise emerse anche la vicenda del colloquio col maggiore ma la difesa lo utilizzò a garanzia dell’imputato: «Fu avvicinato da contrabbandieri per le maldicenze che giravano sul suo conto a causa degli articoli scritti da Spampinato». La corte d’appello di Catania poi riformò la condanna facendo cadere la provocazione del giornalista ma giudicando le attenuanti prevalenti sulle aggravanti. La pena fu ridotta di un terzo: 14 anni. La Cassazione confermò. Campria finì di scontare la pena al manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto e gli ultimi due anni a Roma in semilibertà. Uscì nell’81.
Ma se è vero che tre indizi fanno una prova, ci sono tre fatti che accendono un faro sull’ipotesi che quella sera Roberto Campria fu “costretto” a uccidere Spampinato. Il primo è un verbale del 31 dicembre del ’72, due mesi dopo l’omicidio, firmato da un maresciallo di turno al carcere di Modica dove l’assassino di Spampinato è rinchiuso. Quella sera Campria ha un crollo psicologico e minaccia di trafiggersi il petto con un cacciavite, dopo un’ora e mezza di confronto il maresciallo lo convince a farsi consegnare l’arma e mette testuale a verbale una dichiarazione ambigua: «Mi confessò che gli ripugna la coscienza per il suo reato (l’omicidio Spampinato, ndr) che, a suo, dire, non è da attribuire a un fatto compiuto volutamente ma nessuno gli crede». Dichiarazione che sembra suggerire non tanto il fatto che Campria non volesse uccidere Spampinato ma che lo avesse ucciso contro la sua volontà. Una verità forse troppo ingombrante da far emergere in quel momento. Fatto sta che quell’episodio porterà un risultato a favore di Campria. Una settimana dopo viene trasferito al manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, un regime detentivo sicuramente meno pesante da dove uscirà dopo 9 anni.
Il secondo indizio è una lettera anonima (rimasta incredibilmente sconosciuta per 51 anni: l’abbiamo pubblicata nella nostra inchiesta scorsa) che Campria riceve nel 1976, dopo la condanna in primo grado. «Fai i nomi dei tuoi “amici” che ti hanno incastrato costringendoti a uccidere Spampinato…scrivi una dichiarazione pubblica prima che si svolga l’appello e invoca lo stato di necessità perché sei vittima della volontà e della forza di chi tu sai come io so… avrai sconto di pena e redenzione. Fai i nomi di chi ha ucciso il tuo “amico” Angelo Tumino». Sembra scritto da qualcuno che è a conoscenza di segreti all’epoca noti solo a uno strettissimo numero di persone e suggerisce una strategia giudiziaria: evitare l’ergastolo.
Il terzo indizio, forse il più importante, è quello che ci ha raccontato solo ora un anziano avvocato di Caltagirone che ha lavorato a stretto contatto col giudice Campria dopo che questi si dimise dalla magistratura in seguito alla vicenda di suo figlio. Il giudice Saverio Campria gli avrebbe confidato che il figlio Roberto aveva ucciso Spampinato sotto costrizione di qualcuno e che i mafiosi di Ragusa all’epoca erano persone molto intelligenti con l’enorme talento di agire e restare nell’ombra. Il fantasma di quel talento aleggia tanto nel delitto Tumino che in quello Spampinato. Il sequestro fatto dalla polizia a casa Campria dopo l’omicidio del cronista è pieno di cose che spariscono. Sparisce una memoria scritta da Roberto, una sorta di indagine personale sul delitto Tumino. Di questi appunti scritti a mano su decine di fogli, sono rimasti agli atti solo il primo e l’ultimo rigo di ogni cartella. Le pagine intere sono mancanti. Sparisce una lettera inviata dalla Grecia: fu aperta, letta e mai più trovata. Sparisce il caricatore di una pistola ritrovato misteriosamente un mese e mezzo dopo dal presidente del Tribunale facente funzioni nel cassetto del giudice Campria che intanto aveva lasciato il tribunale di Ragusa (vedi cap 8 de “Il Sotto Livello”).
Ma ci sono cose che spariscono anche dalla scena del crimine davanti al carcere. Giovanni Spampinato viene ucciso con sei colpi di pistola sparati contemporaneamente da due diverse pistole che Roberto Campria aveva comprato quindici giorni prima in un’armeria di Caltagirone. Secondo il rapporto della scientifica una delle due pistole risulterà priva di impronte digitali. L’ipotesi dell’agguato eseguito da più persone è il punto su cui oggi insiste Salvatore Spampinato, l’altro fratello di Giovanni, che ha presentato in procura una perizia medico legale che sconfesserebbe l’autopsia fatta nel ’72 sul corpo di Giovanni Spampinato. La pistola senza impronte è il lato A dell’“enigma Campria”. Sparò davvero o recitò una scena come il doppio gioco, da lui stesso raccontato in Corte d’Assise, realizzato con i contrabbandieri a proposito del colloquio con un maggiore della Guardia di finanza? Comprò le due pistole perché aveva paura o perché servivano nell’imboscata del 27 ottobre?
E poi c’è il lato B dell’enigma. La rapida apparizione-sparizione di una Fiat 850 e del suo ignoto proprietario sul luogo del delitto davanti al carcere, vista accanto alla 500 di Spampinato da cui, dopo aver sparato, esce Campria per andare a costituirsi. Si è spesso ipotizzato che fosse là per monitorare l’omicidio del giornalista. Chi c’era in quella macchina? Dopo 52 anni, forse abbiamo una risposta. Spunta un nome, anzi un cognome.
Quella Fiat “850” presente sui luoghi dei “buchi neri”
Sulla scena dell’omicidio Spampinato la stessa auto di cui il cronista parlava in riferimento all’attentato alla Cgil? Il guidatore dell’utilitaria era lì come soccorritore o che altro? Ora spunta il suo nome: perché non fu mai cercato?
“850, Gurrieri: primo ad arrivare. La macchina con lo sportello destro completamente aperto. Giovanni riverso sull’altro sedile. 11.30/11.45. Forse senza occhiali”. Sono ancora una volta gli “appunti” entrati ora nel fascicolo della procura a fornire nuovi tasselli alla scena dell’omicidio di Giovanni Spampinato.
Dopo 52 anni scopriamo che il misterioso guidatore della 850 fu identificato e forse rintracciato. Ma c’è di più: gli appunti suggeriscono anche la presenza di un possibile nuovo testimone. Si parla di un macellaio (non viene indicato il nome) che abitava lì vicino. Il giorno dopo l’omicidio avrebbe raccontato «di aver sentito gli spari e subito dopo sbattere di sportelli come se fossero più macchine contemporaneamente». Dagli appunti si evince che il macellaio sarebbe il compare d’anello del soccorritore che trasporta Spampinato in ospedale dove arriva senza vita, si chiama Rosario Schembari ed è l’unico a notare Campria che esce dalla 500 di Giovanni e si dirige verso il carcere per costituirsi.
Quattro delle cinque persone che si fermano per prestare soccorso vedono la 850 e descrivono quello che pensano sia il proprietario come una persona di mezza età che aveva fatto cenno di fermarsi per segnalare l’omicidio. Difficile considerare complice del delitto uno che fa segno ad altre macchine di fermarsi a meno che non faccia tutto parte di una scena orchestrata ad arte. Indubbiamente rimane sospetto il fatto che nessuno degli inquirenti allora lo abbia mai cercato. Chi è davvero Gurrieri e quale ruolo ebbe la 850 in quella vicenda?
La 850 davanti al carcere evoca una strana coincidenza che riporta al momento più caldo dell’inchiesta di Spampinato sulle presenze neofasciste nella Sicilia orientale: la bomba esplosa alla sede della Cgil il 14 marzo del ‘72 e che per poco non fa una strage mentre è in corso una riunione tra lavoratori chimici e metalmeccanici e sindacalisti. Quella bomba è il terzo ordigno esploso a Siracusa in dieci giorni. Nel pezzo del 16 marzo che seguì alla grande manifestazione dei lavoratori contro l’attentato, Spampinato scrive: «Lavoratori e sindacalisti dicevano ieri che negli ultimi giorni è stato notato uno strano andirivieni di auto targate Ct e Rg sotto i balconi della Cgil. In particolare è stata notata la presenza di una fiat 850 targata Rg, color verde pisello o grigio chiaro». Riportare il dettaglio della 850 per il giornalista aveva un obiettivo chiaro: lasciare traccia di elementi sensibili, utili alla controinformazione. Elementi che lo avevano esposto e non lo facevano sentire al sicuro. Lo aveva scritto anche il 5 aprile in una sorta di memoriale che aveva inviato al Partito Comunista nel pieno della sua inchiesta. Scrive di sentirsi intercettato e controllato dalla polizia della squadra politica durante un appuntamento del 31 marzo a Siracusa con Soccorso Rosso. È preoccupato per la collettività: «La Squadra Politica ha messo anche a Ragusa in giro la voce che fra gli anarchici ci sono provocatori dinamitardi».
Ma teme anche per sé, paventando il rischio che «si stia costruendo non so quale provocazione sulla mia persona, dato che negli ultimi tempi sono venuto a conoscenza di fatti gravi, e forse si sospetta che sappia molto di più di quanto non dica».
Non si sente al sicuro Giovanni Spampinato mentre dà il suo contributo firmando gli articoli. Non si sentono al sicuro Roberto Campria e Salvatore Guarino nel mondo di mezzo degli scavi clandestini e del traffico dei reperti archeologici. I due amici di Tumino negli stessi mesi confidano le stesse cose ad alcune persone. Il figlio del giudice dice a un amico (circostanza finita a verbale) che era pronto a consegnargli una lettera sigillata da portare alla polizia se lo avessero ucciso come l’ingegnere. Il restauratore Guarino aveva parlato di una lettera consegnata a un notaio (ma mai trovata) che bisognava aprire se anche lui fosse stato ucciso.
Entrambi vanno in giro armati, entrambi faranno una brutta fine: uno carcerato, l’altro folgorato in uno strano incidente. Il 6 gennaio del 1973, pochi giorni dopo che Roberto Campria viene trasferito al manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, Salvatore Guarino viene chiamato dall’allora parroco del Duomo di San Giorgio, padre Giuseppe Cultrera, ad aggiustare l’impianto elettrico delle campane, perché coi temporali smettevano di funzionare. Guarino non è un elettricista, ma San Giorgio è la sua seconda casa. Il sacerdote chiedeva il suo aiuto con insistenza da giorni. Il restauratore accetta di prestare il suo aiuto e chiede al suo fido ragazzo di bottega Giorgio Cappello, detto Gino, di accompagnarlo. All’ultimo momento, forse con una scusa, il ragazzo si sfila. Il restauratore allora porta con sé l’altro aiutante, Rosario Tumino. Quell’impianto elettrico Guarino lo conosce bene. Per prima cosa si accerta che il quadro generale della luce sia staccato, poi sale gli oltre 100 gradini della scala a chiocciola fin su nel campanile e inizia a maneggiare i fili elettrici quando viene raggiunto da una fortissima scarica che lo uccide sul colpo. Il referto medico legale parla di morte per folgorazione. La perizia dei vigili del fuoco e il rapporto dei carabinieri di “incidente sul lavoro”. Una tragica fatalità. Il sacerdote venne condannato per omicidio colposo, fu ritenuto responsabile di quell’incidente frutto di una superficialità da parte del prelato, perché Guarino non era un elettricista professionista.
Muore così il terzo protagonista della storia, tre mesi dopo Giovanni Spampinato, undici mesi dopo Angelo Tumino. Fu per tutti un incidente, per molti una morte sospetta, come evidenziò anche la famosa indagine dell’82 (cap 5 de “Il Sotto Livello”, ndr).
Vengono così eliminati l’ingegnere e il restauratore, entrambi a conoscenza del segreto del cratere di enorme interesse per i contrabbandieri.
Viene eliminato il giornalista che probabilmente ne avrebbe scritto e il figlio del presidente del tribunale che forse sceglie la prigione alla morte. Quattro destini tenuti insieme da un segreto che l’arma di distrazione di massa ha sapientemente insabbiato per 52 anni separandoli l’uno dall’altro, facendoli passare per “delitti comuni”.
Ma in questa storia c’è ancora un ultimo capitolo che va in scena molti anni dopo, nell’ottobre del 2008. Da qualche anno il procuratore capo di Ragusa Agostino Fera, che nel ’72 era il sostituto che aveva fatto le indagini sul caso Tumino, è accusato da una parte dell’opinione pubblica di aver insabbiato le indagini del ’72 per coprire il figlio del presidente del tribunale. Dirige la battaglia l’ex direttore del carcere di Ragusa, Biagio Spadaro. Con lui si muovono scrittori, giornalisti. Fera querela tutti per diffamazione e vince le cause.
Si chiede a gran voce di riaprire le indagini sul caso Tumino, nel 2005 è pronto anche il testo di una interrogazione parlamentare firmata dall’onorevole Oliviero Diliberto in quota centrosinistra. È in quel momento che l’arma di distrazione di massa fa il suo ultimo ingresso plateale nella vicenda con una lettera anonima che svela il nome dell’assassino di Tumino: «A uccidere l’ingegnere è stato Bartolo Dell’Albani per motivi di gelosia. Tumino gli insidiava la donna amata». Delitto passionale, quindi. Qualcuno porta quella lettera in procura e Fera, che sta per essere trasferito alla procura dei minori a Catania, delega le indagini sull’anonimo. Verranno archiviate nel 2011 per insufficienza di prove, non si troverà nulla a carico di Dell’Albani, che era morto nel '93. Si scoprirà però, come in un gioco di scatole cinesi, che si tratta del testimone che nell’82 aveva raccontato il segreto del cratere: da quella dichiarazione era nata l’indagine a carico del concessionario Dimarco. L’indagine sull’anonimo (cap 6 del “Sotto Livello) intercettò due elementi chiave: la lettera fu un chiaro depistaggio e a mettere in giro la voce di “Dell’Albani assassino” sarebbe stato proprio quel padre Cultrera coinvolto nella morte di Salvatore Guarino.
Per 52 anni si è cercato di allontanare dalla luce la verità di queste apparentemente piccole morti di provincia, che invece fanno parte di una grande storia italiana. Una storia che fissa nel 1972 il primo contatto tra mafia e neofascismo intercettando a Ragusa un centro di potere deviato che svolse un ruolo anche nella strategia della tensione. Siamo alle soglie di una nuova verità storica, forse anche giudiziaria. (fine)