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Accoglienza e amore della “Figlia del cuore”

Di Redazione |

Commuove e resta indelebilmente nella memoria dei lettori “Figlia del cuore” (Marcos y Marcos) l’ultimo romanzo della scrittrice Rita Charbonnier che narra una storia di accoglienza e d’amore contemporanea. Stupisce l’incantevole abilità dell’autrice di raccontare attraverso il personaggio di Ayodele, bimba nigeriana inizialmente arrabbiata con il mondo, la verità della nostra società e anche l’autenticità di forti sentimenti. E’ un libro che s’insinua nel cuore di chi si avventura fra le pagine incise con il bulino dalla Charbonnier, sceneggiatrice e scrittrice, con un passato di studi musicali, pianoforte e canto.

Questo romanzo è un’avventura nelle emozioni, un viaggio nelle famiglie, una narrazione che profuma della torta di mele della nonna.

La storia racconta il percorso emotivo che conduce Ayodele da un affido subito a un’adozione che, inizialmente tollerata, si trasforma in un legame indissolubile. Attraverso la vicenda della bambina (basata su una storia realmente accaduta) il lettore scopre il complesso mondo che ruota attorno ai piccoli destinatari di adozione. Abbiamo intervistato la scrittrice e le abbiamo chiesto del complicato universo delle madri affidatarie, come la protagonista del romanzo, Sara.

Come nasce questo progetto così diverso dalle sue opere precedenti (romanzi storici e riflessioni letterarie e musicali)?

«Desideravo percorrere nuove strade. Ero certa che non avrei più scritto un romanzo storico “classico”. A un tratto mi è piombata di fronte una vicenda umana che mi ha toccata, perché qualcosa di quella vicenda mi riguarda; credo che riguardi molti di noi, in realtà. Una mia amica aveva preso in affidamento familiare una bambina di origini africane. Avrebbe desiderato adottare un bambino, divenirne madre a tutti gli effetti, ma non poteva perché non era sposata e in Italia le persone singole non possono adottare. Con quella bambina, comunque, aveva un comportamento assimilabile a quello di una madre e mi sembrava anche che tra loro ci fosse un bel rapporto, fatto di cauta osservazione, ma anche di reciproco ascolto. Mi sembrava persino che in qualche modo si riconoscessero l’una nell’altra; che si fossero “trovate”. E in sostanza, malgrado non avessero alcun legame biologico, malgrado fossero anche molto diverse fisicamente, avevano una relazione del tipo madre-figlia. Questa situazione, ricca di implicazioni, mi sembra interessante; l’avevo già esplorata in un romanzo storico, “La strana giornata di Alexandre Dumas”. Ho iniziato quindi a desiderare di scrivere un libro che vi ruotasse attorno, ma lo facesse in tutt’altro modo».

Quando ha deciso di raccontare la storia di Sara e Ayodele?

«Cinque anni fa. È stata una gestazione elefantiaca! Ci ho messo tanto tempo anche perché all’inizio non pensavo di farne un’opera di narrativa, ma una sorta di libro-inchiesta che radunasse diversi tipi di genitorialità poco convenzionali. Il progetto ha fatto un balzo in avanti quando ho deciso di scrivere un vero e proprio romanzo, e soprattutto di mettermi nei panni della ragazzina presa in affidamento. Il suo punto di vista era decisamente il più interessante. L’ho chiamata Ayodele, un nome che, nella lingua africana Yoruba, vuol dire “la felicità è entrata in casa” e le ho fatto narrare la propria storia come se avesse davanti un pubblico, in modo tutt’altro che pietistico. Ayodele dice la sua con fare scanzonato, si burla di tutti, ha un linguaggio tagliente, le sfugge anche qualche parolaccia. C’è poi la voce delle istituzioni, che fa da contraltare: ai racconti della ragazzina si alternano le relazioni dei Servizi sociali e degli psicologi, gli atti del Tribunale per i minorenni, la pagella scolastica… documenti che seguono l’evoluzione del personaggio in modo formale, mentre lei è tutta emozione».

Che senso ha l’affido? Perché mettersi in gioco?

«Non ho sperimentato personalmente l’affidamento familiare e al momento non prevedo di farlo, quindi parlo in base a ciò che ho visto e su cui mi sono documentata. L’affido è poco praticato, in Italia. In Francia il numero degli affidi è il quadruplo che da noi. Eppure può essere un’esperienza straordinaria non solo per il bambino che ha bisogno di essere seguito e sostenuto, ma anche per l’adulto che decide di prenderlo con sé per qualche tempo e dargli ciò di cui ha bisogno. Immagino che ci si possa mettere in gioco sulla spinta di diverse motivazioni. Per alcuni può esserci un impulso di tipo volontaristico, il desiderio di provare a fare del bene a qualcuno, facendone così anche a sé stessi».

Quale il messaggio di questo romanzo? A chi è rivolto?

«Che una famiglia non può essere basata solo sul legame biologico tra i suoi membri; il legame biologico non vale un granché, se non è sostenuto dal legame affettivo. Inoltre, che non esiste una struttura familiare migliore di un’altra a prescindere. La riuscita di una famiglia è del tutto indipendente dalla sua forma, dal sesso e dal numero dei suoi componenti. Il romanzo è rivolto ai figli della pancia e del cuore, ai loro genitori e fratelli».

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