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Il no al ddl Province, Schifani e la caccia ai franchi tiratori: alla Regione la prima vera crisi

Dopo la bocciatura del ddl Province caccia ai franchi tiratori A conti fatti il presidente può contare solo su 8-9 fedelissimi

Mario Barresi

09 Febbraio 2024, 08:24

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Dal gabinetto di guerra, con Renato Schifani asserragliato nel bunker di Palazzo d’Orléans dopo la bocciatura del ddl Province, filtra un aneddoto gustosissimo: fra i franchi tiratori della madre di tutte le riforme del governo regionale, avrebbe potuto esserci pure lo stesso governatore. Magari sarà stata l’ansia da prestazione per il voto “di fiducia” (il secondo in pochi giorni, dopo il flop della norma salva ineleggibili chiesta da FdI), o forse la tensione che a Sala d’Ercole si tagliava col coltello, ma fatto sta che Schifani stava sbagliando colore. Il dito presidenziale, come emerge dal racconto di chi ha partecipato ai ristretti vertici di queste ore, si stava per indirizzare verso il rosso ed è stato il tempestivo intervento dell’assessore Marco Falcone (che così s’è pure creato l’alibi per ribattere alle successive bordate di sospetti forzisti si di lui) a fermarlo: «Presidente, l’altro. Devi premere l’altro bottone». Al che il vicepresidente leghista Luca Sammartino, già protagonista di scene da capo-ultras dai banchi del governo in precedenti votazioni “semaforiche”, ha rafforzato il concetto: «Verde, si deve votare verde!».

Il day after della prima crisi di governo

Ora, al di là delle scene che sembrano uscire dalle pagine di un giallo di Agatha Christie in cui il commissario Poirot tiene sulle spine i potenziali assassini in quanto tutti sospettati fino alla fine, il day after della prima vera crisi del governo Schifani si consuma fra dolorose ferite da leccare e conteggi sul pallottoliere dei traditori. Aggiornato con un dato su cui gli ambasciatori del centrodestra all’Ars mettono il dito sul fuoco: a votare a favore della norma sarebbero stati anche «tre-quattro deputati dell’opposizione».

Caccia ai franchi tiratori

Ciò significa che i franchi tiratori potrebbero essere ben più dei 13 voti venuti a mancare su 38 deputati presenti del centrodestra. Un computo che, come ha spiegato Gaetano Galvagno nel vertice riservato a Palazzo d’Orléans, esclude l’ammutinamento di massa dei meloniani. La scoperta (dell’acqua calda) è che «la mancanza dei voti necessari per l’approvazione del disegno di legge fosse imputabile a più forze politiche e non a un solo gruppo parlamentare», come si mette nero su bianco in una velina della Presidenza dell’Ars. Ciò che invece non emerge è la “lista nera” di chi non avrebbe votato la norma tanto cara a Schifani.

Ritorsioni e mal di pancia

E qui, in materia di mal di pancia, c’è l’imbarazzo della scelta: ritorsioni sul precedente voto, delusi dalla lotteria dei manager della sanità, inviperiti per le presidenze di Provincia promesse ad altri alleati, impauriti da un voto ravvicinato che scoprirebbe alcuni altarini territoriali, rivoltosi contro le dinamiche di potere nei singoli partiti. Alla fine della giornata, con tanto di Var sulle immagini degli ultimi banchi e qualche prova fotografica inviata dai sospettati per discolparsi, il tabellone presidenziale reca queste statistiche sui franchi tiratori: 3-4 di FdI, altrettanti (se non di più) di Forza Italia, un paio di leghisti e buona parte dei gruppi di Mpa e Dc, più varie ed eventuali. A proposito di numeri. Qualcuno s’è pure passato la briga di incrociare statisticamente le ultime due Caporetto del centrodestra all’Ars: fra la bocciatura della salva-ineleggibili e quella della riforma delle Province, sottraendo o aggiungendo dal punto di vista politico-aritmetico i favorevoli e i contrari, alla fine Schifani può contare su una “maggioranza” composta da non più di 8-9 deputati che votano in base alle indicazioni del governo. Un gruppo più piccolo del partito del presidente, ma anche di alcuni delle opposizioni.

A mali estremi, estremi rimedi

A mali estremi, estremi rimedi. Ma non stavolta. Schifani ha avuto la lungimiranza (anche grazie ai provvidenziali consigli ricevuti da più parti) di non mettere stavolta in palio le dimissioni. «Poi non l’avrebbe fatto e per un caso clamoroso come questo - riflette a voce alta un influente alleato - sarebbe stato un boomerang politico dagli effetti devastanti, oltre che un effetto “al lupo, al lupo” che avrebbe reso inutili future minacce di questo tipo». E così, per qualche ora, si rincorrono voci di un provvedimento simbolico: azzerare la giunta, per «dare un segnale a tutte le forze del centrodestra». Ma l’ipotesi viene quasi accantonata, proprio mentre dalla Presidenza fanno sapere che è in corso l’incontro con Totò Cuffaro, secondo e ultimo “bilaterale” di ieri in attesa di incontrare i leader degli altri partiti. Il segretario della Dc, già additato assieme a Sammartino come il catalizzatore del voto segreto che ha affossato la norma con cui FdI voleva salvare il seggio a tre suoi deputati, parla schiettamente con il governatore. E il suo giudizio, come al solito, è il più sensato: «È in atto una stucchevole sagra delle ipocrisie. Troppe ridicole verginelle dichiarazioni di rappresentanti della maggioranza che lamentano la mancata approvazione della legge sulle Province. “Excusatio non petita accusatio manifesta”. Almeno abbiano il decoro, se non il buon senso, del silenzio». Sì, perché anche in mattinata continua la raffica di comunicati e lanci d’agenzia in cui si grida allo scandalo. Cuffaro, secondo una ricostruzione diffusa in un’area della maggioranza, sarebbe stato il “garante” della tenuta dell’aula, in un vertice a tre con Schifani e Sammartino nel quale il leader dc avrebbe «garantito» anche per un amico da poco ritrovato: Raffaele Lombardo. Ma l’indiscrezione viene smentita da quasi tutti i diretti interessati.
Giornate nere, nerissime, per Schifani. Che incassa anche la delusione per essere stato “rimbalzato” nella corsa a un posto al sole nella segreteria nazionale di Forza Italia, con strada sbarrata nelle ultime ore persino da Marta Fascina: scontata la nomination del governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, come vice di Antonio Tajani (assieme al collega piemontese Roberto Cirio), il terzo posto andrebbe a Deborah Bergamini, mentre la vedova di Silvio Berlusconi avrebbe espresso il suo niet anche per il quarto “strapuntino” di consolazione per Schifani, destinato invece a Stefano Benigni, già responsabile giovani e fedelissimo della deputata eletta in Sicilia. Insomma: niente da fare.

E ora che si fa?

E adesso alla Regione che si fa? La linea prevalente, fino a ieri sera, è che «ognuno si risolve i problemi a casa sua». Nessun vertice di maggioranza, almeno nei prossimi giorni. Oggi la giunta tornerà a riunirsi per deliberare su un dossier a cui Schifani ha lavorato a testa bassa anche nelle ore successive al flop d’aula: le proposte della Regione al ministero del Sud per l’accordo di coesione annunciato qualche giorno fa a Catania da Giorgia Meloni. E poi non succederà nulla (o quasi) fino alle Europee. Nemmeno l’altra norma di bandiera di FdI sarà più discussa all’Ars: la sanatoria sulle ville abusive sulla costa, come annunciato da Galvagno in conferenza dei capigruppo, è stata «stralciata». Su preciso input dei vertici nazionali del partito (si dice Giovanni Donzelli) che non volevano «altri casini siciliani» in campagna elettorale.
Alla fine la soluzione è più che gattopardesca: stavolta non si cambia tutto per non cambiare nulla, ma non si cambia nulla e basta. Fanno quasi tenerezza le poche righe concordate da Schifani con Galvagno per darle in pasto ai giornalisti. «Incidenti di questo tipo non sono più accettabili, a maggior ragione su temi che rappresentano i pilastri del programma di governo». Con annesso avviso ai naviganti-alleati: «Nel caso in cui fatti del genere dovessero ripetersi, verranno assunte decisioni politicamente importanti». Un “penultimatum”. Un bicchiere d’acqua fresca, nel bel mezzo dell’incendio che divampa nel centrodestra alla Regione.
m.barresi@lasicilia.it