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Musumeci, c’è ipotesi dimissioni ma soltanto come atto estremo

Di Mario Barresi |

Nello Musumeci considera le dimissioni soltanto un atto estremo. Sarebbero una sconfitta, dal punto di vista politico. Ma anche – nel suo modo di concepire la politica – il più clamoroso rispetto «dell’unico contratto che ho firmato: quello con i siciliani».

Dunque le voci di un suo passo indietro – dopo il clamoroso impallinamento della Finanziaria all’Ars – hanno un fondamento, perché comunque il governatore ha messo l’idea sul tavolo, parlandone con i suoi più fidati sodali. Del resto non è la prima volta che ne parla: «Semmai non ci fossero le condizioni per andare avanti, non avrei alcun problema a lasciare. Io ho detto che questo è il mio ultimo mandato, non ho una carriera da alimentare…», è la frase che risuona alle orecchie di alleati e avversari. 

A chiedere, formalmente, le dimissioni di Musumeci era stato ieri il Pd a Sala d’Ercole, col capogruppo Giuseppe Lupo. Il M5S – per la prima volta non con Giancarlo Cancelleri, ma con il capogruppo Francesco Cappello – ha adottato una strategia più sottile: «O si libera dalle zavorre che lo frenano e scrive assieme a noi quattro riforme per salvare la Sicilia o vada a casa», ha detto in Aula, in assenza del presidente della Regione, ieri a Roma per incontri politico-istituzionali e per la registrazione della puntata di “Porta a Porta” sul regionalismo differenziato.

Ma qual è la situazione? Con l’esercizio provvisorio scaduto a fine gennaio, la brusca frenata sulla legge di stabilità dopo che ieri l’Assemblea ha bocciato la norma che spalma un disavanzo di 544 milioni nel triennio mandando ko il governo Musumeci, la Regione siciliana da quasi due settimane si trova in gestione provvisoria: dunque con l’autorizzazione solo al pagamento delle spese obbligatorie. Una sorta di shutdown, lo aveva definito il nostro giornale in un approfondimento degli scorsi giorni.

Dopo la bocciatura della norma sul disavanzo, perno della manovra, il presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè, ha richiamato alla responsabilità tutto il Parlamento siciliano: «Dobbiamo trovare una soluzione, i siciliani aspettano risposte altrimenti appena usciamo da qui ci ammazzano». Ma la soluzione, almeno ieri, non è stata ancora trovata dal governo impegnato nell’exit strategy. Ad affossare la norma sul disavanzo sono stati sei franchi tiratori della maggioranza di centrodestra: 36 voti contrari e 29 quelli a favore. La seduta parlamentare per l’esame della manovra è stata rinviata a oggi pomeriggio.

E adesso Musumeci, che in queste ore ha incontrato prima il suo “gabinetto di guerra” e poi la giunta (quasi) al completo, ha tre strade davanti. La prima: minacciare (o presentare davvero) le dimissioni. La seconda: accettare la proposta grillina e riazzerare tutto, ingoiando il rospo del «tradimento degli elettori che mi hanno votato in una coalizione di centrodestra» per ottenere i numeri per governare e soprattutto la sponda romana del governo nazionale. La più probabile è la terza: restare con la “maggioranza-non maggioranza”, ma rinnovando un accordo con i partiti; un patto d’onore che dia gli strumenti al governo di non essere ostaggio dell’Ars. A partire, in un contesto in cui prevale dappertutto il modello dei “governi forti”, dalla madre di tutte le battaglie: «Bisogna abolire il voto segreto, togliendo l’alibi ai franchi tiratori. Chi vuole affossare i provvedimenti della giunta ci deve mettere la faccia davanti ai siciliani», è il mantra che risuona a Palazzo d’Orléans. Un vecchio cavallo di battaglia, sul quale Musumeci risale in groppa. Per trottare verso la sopravvivenza.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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