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Miccichè e Sammartino al bivio del…”Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi”

Di Mario Barresi |

Catania – Uno vorrebbe andarsene, ma per ora è condannato a restare; l’altro è rimasto in punta di piedi, ma è destinato ad andarsene. Gianfranco Miccichè e Luca Sammartino. I gemelli diversi. Così lontani (per età, curriculum e stile comunicativo), eppure così vicini, per l’ossessiva attrazione verso un centro di gravità permanente.

Uno parla e straparla, dice e si contraddice, restando orgogliosamente sempre al centro dei riflettori. Non s’erano ancora spenti quelli del plateale litigio con Nello Musumeci sui vitalizi dell’Ars (mal di pancia reciproci, sintomo di una colite cronica nel centrodestra siciliano), che Miccichè irrompe – baldanzoso elefante nella cristalleria della vigilia del voto in Umbria – nell’autocoscienza hegeliana di Forza Italia. «Lancio un partito per il Sud», annuncia il viceré berlusconiano di Sicilia. «Lo dico con la morte nel cuore – dice intervistato da Il Mattino – perché nella mia vita tutto potrà mai succedermi tranne che tradire Silvio Berlusconi e stavolta lo farò, ma sono pronto a rilanciare un nuovo Grande Sud che faccia gli interessi dei meridionali». Poi, pressato dalle agenzie, ritratta: «Non ho intenzione oggi di fondare un partito, considero Forza Italia la mia casa e la mia famiglia». Ma fino a un certo punto: «Non vorrei fare nessun partito. Ma certamente non voglio morire né antieuropeista né anti-Sud, né salviniano…». E allora «forse ho sbagliato i tempi quando abbiamo fatto Forza del Sud, poi diventato Grande Sud… Forse andava fatta oggi…».

Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi. Come può uno scoglio moderato arginare il mare sovranista? Miccichè, come sempre, ha il coraggio di dire ciò che molti pensano. «Noi prendiamo i voti al Sud, ma il partito rimane blindato al Nord». Ed è un «abbraccio mortale» quello di chi, nel partito, spinge il Cav per «stare vicini a Matteo Salvini», poiché «in tanti siamo troppo a disagio in questa situazione, anche Mara Carfagna la pensa come me, entrambi vogliamo bene a Berlusconi, ma il disagio è forte, è necessario fare valere le ragioni del Mezzogiorno». E scatta subito il cordone sanitario della Croce Azzurra. Ribatte Stefania Prestigiacomo: «Il nostro campo è il centrodestra»; rassicura Renato Schifani: «Dobbiamo rimanere ancorati nel centrodestra in un partito che abbia sempre più a cuore le esigenze del Mezzogiorno»; tranquillizza Marco Falcone: «Quella di Gianfranco è una provocazione che ci può stare, ma oggi solo Forza Italia rappresenta un argine affinché la Sicilia sia ben rappresentata»; chiarisce Bernardette Grasso: «Siamo un partito liberale decisivo all’interno di questo centrodestra».

Tutto previsto e prevedibile, come l’agguato dell’udc Vincenzo Figuccia: «Miccichè lascia Fi? Può fare meglio, lasci la Sicilia». Al di là del gioco delle parti, l’istanza sudista-sicilianista di Miccichè ha anche un effetto collaterale nei delicatissimi equilibri del centrodestra siciliano. E la distanza da Musumeci, oggi siderale dopo lo scontro all’Ars e gli infruttuosi tentativi di un incontro chiarificatore, potrebbe ridursi come per magia. Per una reciproca convenienza, più che per un’affinità elettiva che fra i due non c’è mai stata. «Ma in questa fase è più Musumeci ad avere bisogno di Miccichè…», sibila un esponente “neutrale” della coalizione. Il commissario forzista nell’Isola, però, chiarisce a scanso di equivoci: «Mai con Matteo Renzi», che «è bravissimo e nel confronto tv con Salvini mi è piaciuto, ma non capisco quali sono le sue proposte. Il suo partito farà fatica e chi va appresso a Renzi, lo dico simpaticamente, mi pare un fesso».

E qui si arriva a Sammartino, tutt’altro che fesso per Miccichè, che gli riconosce, al netto di un idem sentire contro gli opposti estremismi, un ruolo decisivo nella tormentata elezione sullo scranno più alto di Sala d’Ercole. L’altro parla poco, anzi tace, scansando scientificamente l’argomento. «Continuo il mio lavoro in Assemblea e sui territori: è quello che so fare meglio», dice a chi gli chiede cosa farà adesso. “Mister 32mila preferenze” non è ancora uscito dal Pd. Neanche dopo che Valeria Sudano, sua compagna in un sodalizio di ferro, ha scelto di seguire Renzi, che «mi accolse in un partito che continuava a considerarmi un corpo estraneo». Lei con Italia Viva, Sammartino no. Consensualmente unitissimi nella separazione legale: se fosse davvero un piano, sarebbero gli “Olindo&Rosa” della politica siciliana. Ma non sembra così. Si va avanti. Lei al Senato, lui a Palazzo dei Normanni, dove ricopre – in quota Pd – la carica di presidente della potente commissione Cultura, Formazione e Lavoro. Anzi i suoi compagni dell’Ars lo descrivono come «allineato e coperto, come non mai partecipe alla vita del gruppo». Vuole fare il “Marcucci dell’Ars”, replicando la scelta degli ultra-renziani che non hanno seguito il leader? Se fosse così, magari si potrebbe pensare a un ruolo nella Base Riformista di Lorenzo Guerini (a cui Sammartino resta legatissimo) e Luca Lotti. Ma la corrente dem ha già scelto Carmelo Miceli, ex fedelissimo di Davide Faraone, come coordinatore regionale. I più maliziosi aggiungono: «Sammartino ha tolto il simbolo del Pd dal suo blog». Ma a onor del vero lucasammartino.it è online da una ventina di giorni. Ed è nato in versione “no logo”.

Tanti indizi, nessuna prova. Certo, preoccuparsi delle magnifiche sorti e progressive di Sammartino nel Pd – a maggior ragione dopo la sconfitta umbra che rimette in discussione il lavoro diplomatico di alcuni dem siciliani, Peppino Lupo in testa, con il M5S in vista di confluenze alle Amministrative di primavera- potrebbe essere un rompicapo per pochi appassionati del genere. Ma non è così per chi, nel partito, chiede «uscire dall’ambiguità, la stessa che in passato ci portava a nascondere il simbolo alle elezioni». Angelo Villari, battagliero zingarettiano etneo, rompe il «silenzio ipocrita» sul caso Sammartino: «Dica cosa vuole fare, dopo che lui il suo gruppo, a partire dalla Sudano, hanno fatto scelte che li pongono fuori dal Pd».

Il riferimento dell’aspirante segretario provinciale dem è all’assenza del deputato renziano (e di quasi tutti i suoi) quando una folla non oceanica, ma molto appassionata, ha accolto il commissario regionale Alberto Losacco a Catania sabato 19 ottobre. Lo stesso giorno in cui Sammartino, pur tendendosi alla giusta distanza dai selfie di gruppo, è stato avvistato alla Leopolda. «Ci sono sempre andato, è la mia settima volta», ha ammesso a chi gli riportava i pettegolezzi sulla sua contemporanea assenza-presenza. Lo stesso Losacco (che nelle ultime settimane pare non abbia ricevuto risposta a più di una chiamata al deputato regionale) ridimensiona la coincidenza: «Altri esponenti del partito sono andati alla Leopolda, spiegando le ragioni della partecipazione». Ma il punto, adesso, è un altro: «Sammartino, così come altri, avrà modo di chiarire la sua posizione – dice Losacco – con il tesseramento. Lo si dovrà fare entro il 30 ottobre, per chi vuole ricoprire cariche dirigenziali nel Pd».

Gli «altri» in questione sono i Matteo-boys rimasti nel guado. A Messina hanno chiesto le dimissioni del segretario provinciale Paolo Starvaggi, “reo”, assieme all’ex (e forse futuro, via carte bollate) deputato regionale Pippo Laccoto, alla famigerata Leopolda. E a Palermo, quest’ultimo sabato, più d’un mugugno per l’assenza del capogruppo in consiglio comunale, il faraonianissimo Dario Chinnici, un’anguilla sfuggente col commissario, all’incontro col format di Catania.

I desaparecidos renziani del Pd avranno modo di chiarire. Senza troppa fretta. A partire da quello più in vista. «Sammartino sta aspettando di avere il gruppo renziano all’Ars», è il pronostico di un ex Ds di peso. È solo questione di tempo? «È lui che ha i voti. Faraone, che non ne ha, avrà un ruolo nazionale, mentre a Luca – è la certezza di un attuale compagno di partito – Renzi consegnerà le chiavi di Italia viva in Sicilia». L’indiziato non si espone. «Resto un dirigente del Pd. Se dovessi fare una scelta diversa – smozzica ai suoi adepti – se ne accorgerebbero subito…». Come se ne accorse il compianto Lino Leanza dopo il rito edipico del gruppo del suo delfino.

Miccichè e Sammartino. Due linee parallele che si sono sfiorate fino a toccarsi nel sempre evocato e mai lanciato «cantiere dei moderati», più che un progetto uno schizzo in un foglietto già incartapecorito dopo l’estate politica più pazza del mondo. Niente da fare, almeno per ora: uno di qua e l’altro di là. Fra sentieri angusti e autostrade senz’asfalto. In attesa di tempi migliori. O almeno diversi.

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