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il dibattito

“Niente truppe italiane in Ucraina ma Mosca irragionevole”: Meloni chiude il varco, rilancia deterrenza e ricostruzione

A Bruxelles la premier marca i confini della linea italiana: pressione sulla Russia, garanzie di sicurezza per Kiev e un cantiere europeo sulla ricostruzione finanziato in modo “legalmente solido”.

Redazione La Sicilia

17 Dicembre 2025, 12:38

“Niente truppe italiane in Ucraina”: Meloni chiude il varco, rilancia deterrenza e ricostruzione

Giorgia Meloni nell'informativa alla Camera ha scandito il perimetro della posizione italiana: “Non invieremo soldati in Ucraina”. La frase, tutt’altro che rituale, arriva mentre a Bruxelles si apre un Consiglio europeo decisivo e a pochi giorni da una dichiarazione congiunta di alcuni leader Ue sulla necessità di dare a Kiev “garanzie di sicurezza” credibili. La premier parla di una Russia “impantanata”, di richieste “irragionevoli” sul Donbass che bloccano il negoziato, e insiste su una strategia tripolare: deterrenza, garanzie di sicurezza e ricostruzione. Una rotta che evita gli stivali sul terreno e mette a fuoco l’architettura politico-finanziaria del “dopo”, ma senza arretrare sulla pressione su Mosca.

Il “no” alle truppe: una linea già tracciata e ora ribadita

Nel lessico della premier il rifiuto dell’ipotesi di truppe europee in Ucraina non è un fulmine a ciel sereno, ma la conferma di un indirizzo espresso in più tappe durante il 2025. A marzo, di fronte al dibattito interno all’Unione europea su una possibile “forza di pace” continentale, Meloni aveva bollato l’opzione come “poco efficace” e “molto complessa” da implementare. Per Roma, l’unico perimetro accettabile riguarda missioni di addestramento e monitoraggio, rigorosamente fuori dai confini ucraini e solo dopo una cessazione delle ostilità. Un messaggio ribadito anche a fine agosto con la formula: “niente truppe, solo addestramento”.

La scelta dialoga anche con la sensibilità dell’opinione pubblica italiana e con i vincoli internazionali. L’Italia continua a contribuire all’assistenza militare, all’addestramento e al sostegno umanitario, ma respinge l’idea di un’escalation che trasformi un impegno politico e logistico in presenza militare diretta in Ucraina. Una bussola coerente con la richiesta italiana di evitare duplicazioni con la NATO e, al contrario, rafforzare l’asse transatlantico.

“Mosca si è impantanata”: il contesto militare e politico

“Questa guerra doveva durare 3 giorni, siamo a quasi 3 anni”: Meloni usa numeri e proporzioni per sostenere che Mosca non ha raggiunto i suoi obiettivi strategici, e che la prospettiva di una pace “giusta e duratura” nasce dall’azione combinata del respiro militare ucraino e del sostegno occidentale. Da qui l’analisi: la Russia è “impantanata” e continua a presentare al tavolo richieste “irragionevoli”, a partire dalla pretesa di considerare il Donbass territorio non negoziabile. È, nelle parole della premier, lo “scoglio” che impedisce passi in avanti.

Il quadro resta, però, fluido e pericoloso. Nelle ultime settimane il Cremlino ha accreditato nuovi successi tattici nell’est del Paese e ha irrigidito la retorica su NATO e accordi territoriali, alimentando l’impressione che il negoziato guidato dagli Stati Uniti richieda ancora pazienza e pressione. Qui Meloni marca la sua linea: continuare a sostenere il percorso diplomatico americano, ma senza concedere aperture che si traducano in una “premialità” per l’aggressore.

Deterrenza e “garanzie di sicurezza”: il nocciolo della proposta italiana

L’insistenza della premier sulle garanzie di sicurezza non è un artificio linguistico. Indica una precisa architettura: consolidare la capacità militare di Kiev, costruire un meccanismo di deterrenza di tipo politico—sul modello dell’articolo 5 del Patto Atlantico—e affiancare uno strato di “rassicurazione” tecnologica e informativa (difesa aerea, sorveglianza, sicurezza marittima, cyber). Il disegno coinciderebbe con la bozza di lavoro emersa nel mini-vertice di Berlino del 15 dicembre 2025, che ipotizza una forza multinazionale europea a guida Ue per compiti non di combattimento e una cornice di monitoraggio del cessate il fuoco a guida statunitense. Una piattaforma che alcuni partner immaginano con un esercito ucraino dimensionato intorno a circa 800.000 effettivi e presidi europei a tutela dello spazio aereo e dei corridoi marittimi.

Per Roma, l’elemento politico resta decisivo: qualsiasi decisione sui territori spetta agli ucraini; la parte europea deve costruire le condizioni affinché, qualunque sia l’esito negoziale, la sicurezza di Kiev non dipenda dal buon umore del Cremlino. In altre parole, deterrenza prima e oltre la firma della pace.

Asset russi congelati: il nodo legale e la linea dei “paletti”

Un altro passaggio sensibile riguarda i beni russi congelati nell’UE. La premier ha riconosciuto che utilizzare capitali o extra-profitti in modo diretto è “lontano dall’essere semplice” sul piano giuridico. La linea italiana, in vista del Consiglio europeo del 18-19 dicembre 2025, è duplice: sì alla responsabilizzazione economica della Federazione russa per i danni di guerra, ma con un meccanismo che regga in tribunale e non metta a rischio stabilità finanziaria e credibilità delle istituzioni europee. Da qui la preferenza per l’impiego degli interessi maturati sugli asset immobilizzati, già incanalati in più tranche verso Kiev, e per soluzioni come il prestito per le riparazioni disegnato dalla Commissione.

I numeri: tra luglio 2024 e agosto 2025 l’UE ha trasferito tre tranche di proventi straordinari dagli interessi per complessivi oltre 5,2 miliardi di euro (circa 1,5 a luglio 2024, 2,1 ad aprile 2025, 1,6 ad agosto 2025). Dal 95% di queste entrate si alimenta l’Ukraine Loan Cooperation Mechanism (ULCM), fino a 45 miliardi per rimborsare prestiti Ue e G7; il restante 5% sostiene necessità militari attraverso l’European Peace Facility. Roma chiede che ogni ulteriore passo non pesi sui vincoli del Patto di stabilità e non intacchi altri capitoli come la coesione.

Niente “riarmo” ma resilienza: semantica e sostanza di una politica industriale della difesa

Nel lessico di Palazzo Chigi la parola “riarmo” è “infelice”. L’idea è spostare il baricentro dal solo acquisto di sistemi d’arma a una più ampia politica industriale della sicurezza, che includa supply chain di materie prime, cybersicurezza e infrastrutture critiche. Di qui anche il “no” al dirottamento dei fondi di coesione per comprare armi e l’apertura a strumenti finanziari “orizzontali” (garanzie pubbliche, leva sugli investimenti privati) sul modello InvestEU. Una dialettica che ha attraversato l’intero anno, tra la proposta di “ReArm Europe” della Commissione e le resistenze di vari governi, Italia inclusa.

La ricostruzione come strategia: diplomazia economica e cantieri

Il terzo pilastro della linea italiana è la ricostruzione. Qui il lessico diventa molto concreto: strumenti di assicurazione del credito, garanzie per gli investimenti, corsie preferenziali per le PMI e un coordinamento stretto tra attori pubblici e privati. In Italia, la cabina di regia comprende il MAECI, l’ICE, CDP, SACE, SIMEST, AICS, Confindustria e la Protezione Civile, con una piattaforma dedicata alle imprese che vogliono partecipare ai progetti di ripresa ucraini, in particolare nel comparto energetico, infrastrutturale e sanitario. Nel luglio 2025, SACE ha firmato tre protocolli d’intesa con il Ministero dell’Economia ucraino, il Fondo Europeo per gli Investimenti e Ukreximbank, ulteriore conferma di una traiettoria che vede l’Italia tra i paesi capofila nella costruzione di un ecosistema finanziario per il “dopo guerra”.

Questo sforzo si integra con il quadro europeo: oltre al flusso dei proventi degli asset russi immobilizzati, la Commissione ha elaborato il concetto del “prestito per le riparazioni”, finanziato a mercato e rimborsabile da Kiev nel momento in cui Mosca pagherà le dovute riparazioni. Una soluzione che tutela l’integrità legale dei beni congelati e, al contempo, garantisce risorse certe alla ricostruzione nel medio termine.

“Volenterosi”, NATO e Ue: come si compone il puzzle della sicurezza

Sul terreno politico la discussione resta serrata. L’ipotesi di una coalizione dei volenterosi europea—con un perimetro variabile di paesi pronti a un ruolo operativo sul campo—ha incontrato il “freddo” italiano quando si è parlato di presenza fisica in Ucraina. Meloni ha però lasciato aperta la porta a contributi tecnologici e di addestramento, insieme a missioni di peacekeeping ONU qualora si aprisse un vero processo di pace. L’orizzonte preferito da Roma resta una sinergia stretta con gli Stati Uniti, evitando che la sicurezza europea si sdoppi rispetto alla NATO. In questa cornice, il meccanismo di monitoraggio del cessate il fuoco a guida americana e la forza multinazionale europea con compiti di sicurezza non combat, ipotizzati nel documento politico di Berlino, rappresentano una sintesi che Palazzo Chigi guarda con interesse, purché sia chiara la catena di comando e la cornice legale internazionale.

Il tavolo negoziale e le “linee rosse”

Resta il nodo politico più spinoso: i confini del dopoguerra. L’Italia ha ribadito in più occasioni che la decisione su eventuali cessioni territoriali non può che appartenere agli ucraini. Allo stesso tempo, la premier ha giudicato “irragionevoli” le condizioni poste da Mosca—a cominciare dal Donbass—per qualsiasi compromesso. È la fotografia di un negoziato “produttivo ma difficile”, spinto dagli Stati Uniti ma attraversato da diffidenze reciproche. Qui la strategia italiana punta a evitare il duello tra massimalismi, mantenendo viva la prospettiva di una pace con la forza della deterrenza: solo un ombrello di garanzie credibili può rendere sostenibile nel tempo un accordo politico.

Bilancio e prospettive: perché la scelta italiana conta

Il “no” alle truppe e il “” a deterrenza, garanzie e ricostruzione non sono un compromesso al ribasso. Sono la traduzione, in chiave italiana, di un equilibrio che attraversa oggi l’Unione europea: sostenere Kiev senza aprire spirali di escalation, far pagare i danni all’aggressore senza scivolare in forzature giuridiche, rafforzare la difesa europea senza indebolire l’Alleanza. Nel breve periodo, la scommessa è che la pressione combinata—sanzioni, sostegno militare, isolamento politico—porti Mosca a smussare le “pretese irragionevoli” sul Donbass. Nel medio periodo, che le garanzie di sicurezza e il cantiere della ricostruzione diano a Kiev gli strumenti per reggere il peso della transizione dalla guerra alla pace.

Se questa architettura reggerà, lo si vedrà nei prossimi mesi. Intanto, il perimetro è tracciato. E l’immagine scelta dalla premier—una Russia che “si è impantanata”—suona come un avvertimento e una promessa: niente scorciatoie, ma nemmeno concessioni al fatalismo. Deterrenza per fermare l’aggressione, garanzie per blindare la pace, ricostruzione per farla durare.