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Lo “sbarchino” delle camicie verdi da Tradate a Furci (bacioni a D’Alia)

Di Mario Barresi |

Non è stata una prima volta speciale. Come, talvolta, succede. A chi l’agogna. E la sogna. L’aspetta, la ciàura, la desidera. Ma poi, quando arriva, ci resta deluso. Anni di corteggiamenti e ammiccamenti, preliminari tanto lunghi da diventare tediosi. E alla fine niente di speciale: una sveltina, goffa e sudaticcia, nel lupanare della politica siciliana. Più che indimenticabile, da dimenticare presto.

Lo sbarco della Lega in Sicilia, per quanto ormai più che scontato, porta con sé suggestioni e maledizioni potentissime. Matteo Salvini che «orgoglioso» benedice l’ingresso dei suoi nella giunta di Nello Musumeci, «felice» di accoglierlo, è un evento politico – nel bene e nel male – di portata storica. E il varco d’ingresso dei leghisti conferisce un ulteriore carico di santini sfoderati e tabù infranti: l’assessorato ai Beni culturali e (sic!) all’Identità siciliana. Materia per i columnist delle prime pagine dei giornali internazionali, se non fossimo costipati nella crisi globale della pandemia.

E invece no. Colpa dei cronisti, che, affamati di retroscena e disavvezzi a volgere lo sguardo oltre gli abituali orticelli, lo raccontano come un (noioso) rimpasto qualunque? No. Perché di questo si tratta: uno “sbarchino”. La potenza dell’evento – sia esso l’arrivo del Male Assoluto nell’Isola o l’inizio della liberazione del Capitano – s’è dissolta in uno dei riti più sacri della politica siciliana: il vertice di maggioranza. Nel quale Stefano Candiani, viceré salviniano di Sicilia, a Palazzo d’Orléans s’è mosso quasi a livello di un Totò Cardinale d’annata. Si parla «per almeno tre ore di programmi e di questioni amministrative», gli alleati sbadigliano mentre Musumeci riassume la «stagione riformatrice». Poi il vero ordine del giorno: il rimpasto in giunta. Gianfranco Miccichè spariglia: «Azzeriamo tutto». Gli altri, fingendo sorpresa e indignazione, si oppongono. E si arriva subito al dunque: «Voi della Lega cosa volete?». Candiani dice l’Agricoltura sapendo che gli daranno i Beni culturali, proprio quello che lui vuole. Quindi, al diniego dei forzisti, parte un’inutile trattativa: assessorati da spacchettare (i Rifiuti dall’Energia, il che sarebbe stato l’ideale per Arata) o da rendere più appetibili. Come le Autonomie locali. «Ma che è un assessorato, questo?», chiede Miccichè a chi gli propone di aggiungere optional digitali. Urge una sospensione. E sia. Il governatore, fino a quel momento descritto come «distaccato» sul rimpasto, comincia gli incontri bilaterali: un alleato per volta, nel confessionale. Belle parole per tutti.

In tutto ciò il padano Candiani – lui che giurava, a luglio scorso, che «la Lega non entrerà mai in giunta» schifando «ascari, boiardi e gattopardi» dell’Ars – nuota come un pesce nell’acquario. Perché sa che tutti pendono dalle sue labbra: Musumeci (che pensa alla federazione del suo movimento col Carroccio, convinto di aver firmato una polizza sulla sua ricandidatura nel 2022), Miccichè (che chiede di cambiare tutto perché non vuole cambiare nulla) e tutti gli altri alleati (che si tengono strette le poltrone altrimenti a rischio).

«Vabbe’ accettiamo i Beni culturali», dice, con un ghigno, l’emissario di Salvini, appassionato d’arte. Per la gioia dei suoi dell’Ars, impazienti di auto col lampeggiante, gabinetti e nomine. Ma non sanno, gli sciagurati (solo Nino Minardo, astro nascente ora cadente, lo sospetta), che Candiani ha già un nome in tasca. Ed è questa la nèmesi multipla della prima volta della Lega alla Regione: nella rosa per Musumeci, il predestinato è Matteo Francilia. Giovane sindaco di Furci Siculo (Salvini ha pure dormito a casa sua), con uno zio emigrato a Tradate molto amico dell’ex sindaco del paese. Ovvero: Candiani. Quello che si dice «un fedelissimo», nello stile leghista che premia i dirigenti locali bravi. Anche a costo di far andare in frantumi il gruppo all’Ars: dopo l’addio di Giovanni Bulla, Marianna Caronia ha già le valigie pronte. E gli altri due – Antonio Catalfamo, nemico acerrimo di Francilia per storie di liste messinesi, e Orazio Ragusa, mancato assessore all’Agricoltura – restano, avvinti dalla delusione, a chiedersi: «Ma noi che ci facciamo qui?». Oggi si rivedranno, tutti assieme, per parlarne. Si auto-candideranno nella lista dei nomi per Musumeci; racconteranno dell’indignazione della base del partito; rimpiangeranno il nome di un «assessore di alto profilo», il magistrato Roberto Centaro, che nessuno fa più. Ma sarà tutto inutile. Perché Candiani padroneggia la politica (e l’antropologia) siciliana come se fosse di Calascibetta e non del Varesotto. E ha già deciso: l’assessore con cui la Lega perderà la verginità in Sicilia è Francilia. Non incompatibile (già verificato dal senatore con gli uffici regionali), giovane, ben vestito, ambizioso, affidabile.

È lui l’uomo giusto. Ed è soltanto un dettaglio trascurabile il fatto che il primo salviniano nella giunta di Musumeci sarà uno che nel 2017 si candidò in una lista a sostegno del rivale dem Fabrizio Micari: l’Alternativa popolare di Angelino Alfano, con dentro i cugini dell’Udc. Prese 3.538 voti. Secondo più votato, sulla scia del capolista e amico Giovanni Ardizzone. Ma Francilia, oggi fra i Matteo-boys più quotati dell’Isola, ha un solo maestro politico: Gianpiero D’Alia. Ah, quanto ci manca D’Alia… Ma sul serio.

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